C'è una questione culturale importante e profonda dietro la decisione di dichiarare o meno sano di mente Anders Behring Breivik, il giovane norvegese che il 22 luglio dello scorso anno uccise 77 persone in un duplice attacco a Oslo. La commissione medica che lo ha analizzato per la seconda volta lo ha riconosciuto capace di intendere e di volere. Quindi, processabile per i delitti che ha commesso. Una prima perizia condotta alcuni mesi fa aveva invece prodotto una diagnosi di schizofrenia paranoide. Gli psichiatri avevano ricostruito «l’universo delirante che governa i pensieri e le azioni» dell’imputato, condizione per la sua non imputabilità. Ma lo stesso Breivik, attraverso i suoi legali, contestò con forza le conclusioni. Il paradosso può avere una duplice motivazione. Da una parte, l’assassino voleva forse vedere affermata la propria ideologia come motivazione razionale, sebbene illegale, e non come semplice “pazzia”, venendo riconosciuto quale interlocutore, anche politico, dal sistema penale invece che soggetto estraneo alla società e alle sue leggi. Dall’altra, un trentaduenne potrebbe avere interesse ad essere qualificato come criminale punibile perché in Norvegia un verdetto di infermità può confinare a vita in un manicomio criminale (grazie anche a una legge scritta in questi mesi quasi ad hoc), mentre la condanna massima non supera i 21 anni di carcere. In ogni caso, la prospettiva di non punibilità provocò forti proteste nell’opinione pubblica e indusse la corte a disporre una seconda perizia. Che ieri ha dato l’esito opposto. Di fronte a un caso simile, le nostre sensazioni immediate e le intuizioni non ponderate possono risultare a volte una guida fuorviante. Infatti, chi ritiene che il terribile crimine di Breivik meriti una punizione adeguata, non giudicherà sufficiente la pena massima prevista dall’ordinamento norvegese. D’altro canto, una valutazione di infermità mentale avrebbe prodotto una restrizione indefinita della sua libertà per motivi di sicurezza (un malato pericoloso socialmente), ma lo avrebbe di fatto esentato dalle sue responsabilità, senza la sanzione pubblica di una condanna dopo un pubblico processo (un pazzo non sa quello che compie e, al massimo, va compatito). Il punto è se chi commette delitti così efferati ed esecrabili possa ritenersi davvero "sano di mente". Oggi molti studiosi della psiche e del cervello lo negano. Le naturali tendenze prosociali degli esseri umani – si sostiene – possono risultare distorte al punto da torturare e massacrare propri simili soltanto a causa di qualche patologia (cancellando in qualche modo l’idea di "male" e di "cattiveria"). Ma dove va tracciata la linea? Ha fatto molto discutere, ad esempio, il caso di Robert Henry Moormann, giustiziato in Arizona il 29 febbraio scorso. Arrestato per molestie, durante un permesso accoltellò e fece a pezzi l’anziana madre. I suoi legali affermarono che era ritardato mentalmente, ma secondo una sentenza della Corte Suprema americana del 2002 una tale diagnosi vale in ambito penale se il soggetto non raggiunge quoziente di intelligenza pari o superiore 70. E Moormann aveva totalizzato un punteggio maggiore. Si era fermata a 72 Teresa Lewis, uccisa con un’iniezione letale in Virginia il 24 settembre dell’anno scorso per aver organizzato l’omicidio del marito e del figliastro. Una quota sufficiente per i giudici, malgrado la mobilitazione nazionale di molte esponenti della società civile a favore di un gesto di clemenza verso una persona palesemente disabile psichicamente. Nessuno si commuoverà per Breivik. Ci sembrano troppo ben pianificati i suoi attentati, troppo elaborate le sue motivazioni, pur aberranti. Ma, come avevano affermato i primi periti, un delirio pare governare le sue azioni e dal punto di vista medico ciò equivale a "mancanza" di comprensione dei propri atti paragonabile a quella di una persona ritardata. Semplificando, se ci fidiamo delle nuove scienze cognitive parecchi criminali non dovrebbero essere processati. Ma tanti riterranno che così si venga meno all’idea di giustizia che chiede di punire i colpevoli. Il senso di umanità, però, ci dice che non è equo infierire su chi non si può considerare responsabile di ciò che fa. A farci propendere da una parte o dall’altra sono spesso le situazioni e le apparenze. Non possiamo tuttavia venire meno neppure al principio basilare di trattare casi simili in modo simile. Per questo la vicenda Breivik è una cartina di tornasole di questioni che diventeranno sempre più centrali e controverse.