A due settimane dal primo turno delle elezioni presidenziali brasiliane (previsto per il 7 ottobre e coincidente con le elezioni della Camera e del Senato, oltre che di vari Governi statali), l’incertezza e la confusione continuano a regnare sovrane. L’incertezza riguarda ovviamente l’esito, che al momento è aperto ad almeno quattro soluzioni diverse per la decisiva scelta del nuovo Presidente, mentre la confusione concerne, per vari motivi, il ruolo svolto nella campagna dai principali contendenti.
Da questo secondo punto di vista, i dati parlano chiaro. Il candidato favorito da tutti i sondaggi, l’ex presidente Lula (2003-11), sostenuto dal Partito dei Lavoratori (Pt), sta attualmente scontando una condanna a dodici anni di carcere per corruzione e per questo motivo è stato escluso dalla contesa dal Tribunale elettorale. Il suo partito – che ha gridato al 'golpe' nel 2016 quando l’allora presidente Dilma Rousseff (2011-15) è stata destituita con un impeachment e che ha contestato come politicamente motivata la condanna di Lula – ne ha accettato l’esclusione solo dopo che ben 17 ricorsi da esso presentati erano stati respinti dalle autorità elettorali e solo allora ha indicato come suo candidato l’ex sindaco di São Paulo, Fernando Haddad, che inizialmente era stato affiancato a Lula come vice. Ma se i sondaggi indicavano intenzioni di voto a favore di Lula fra il 35 ed il 40% al primo turno, il suo sostituto arranca ora su uno stentato 13%, dopo aver languito per settimane fra il 4 e il 6.
Dunque le elezioni 'senza Lula', ormai una certezza, sono cosa ben diversa da quello che sarebbero state le elezioni 'con Lula'. I l ruolo di front runner, di favorito, è allora passato a Jair Bolsonaro, capitano dell’esercito in congedo e deputato da ben 27 anni per il partito conservatore Psl. Bolsonaro è in fondo la vera novità delle elezioni brasiliane di quest’anno e si presenta come la variante brasiliana di fenomeni quali Trump e Duterte, cavalcando una immagine di innovatore dai toni populisti, anche se molti osservatori fanno notare che la sua carriera parlamentare si è sinora distinta per una notevole dose di grigiore. Oltretutto, il 7 settembre una pugnalata infertagli da uno squilibrato aderente a gruppi di estrema sinistra durante un bagno di folla nella città di Juiz de Fora ha messo fuori combattimento Bolsonaro, che non corre pericolo di vita, ma è abbastanza acciaccato da non poter più partecipare al resto della campagna elettorale.
Eppure, una volta uscito Lula dalla competizione, la sua qualificazione per il secondo turno sembra al momento l’unico dato certo di queste elezioni presidenziali: con il 26% delle intenzioni di voto, l’ex militare doppia tutti i suoi competitors. Con una particolarità: secondo i sondaggi egli perderebbe quasi sicuramente al secondo turno, chiunque sia l’altro candidato ammesso, con la sola eccezione di Fernando Haddad. Perché uno dei paradossi di queste presidenziali è proprio la coppia di attrazione e rigetto generata dal Pt di Lula e Haddad (accusato di corruzione e clientelismo) da un lato e da Bolsonaro dall’altro, con la conseguenza che un secondo turno che li veda contrapposti sarebbe più una gara a buttar giù dalla torre il più sgradito che a scegliere il capo dell’esecutivo per i prossimi quattro anni.
Fra Haddad e Bolsonaro si dimenano tre candidati con possibilità di accedere al secondo turno al posto di uno dei due favoriti. Due di essi – Ciro Gomes e Marina Silva – contendono ad Haddad il voto di sinistra. Gomes è l’ultima incarnazione del trabalhismo (laburismo) brasiliano, il cui pedigree fatto di un delicato mixage di politiche sociali e autoritarismo politico ha attraversato l’ultimo secolo di storia da Vargas a Goulart fino a Brizola, per il cui partito – il Pdt – Gomes corre per la presidenza. Marina Silva, candidata della Rede, è una ex ministra del governo Lula che incarna il voto degli esclusi che contestano il clientelismo del Pt. Entrambi sono alla terza candidatura presidenziale e mettono ben in evidenza il frazionismo congenito della sinistra brasiliana (che annovera fra le sue fila anche altri candidati minori).
L'ultimo 'presidenziabile' con chance di accesso al secondo turno è anch’egli una vecchia conoscenza della politica brasiliana: Geraldo Alckmin, ex governatore del potente stato di São Paulo e candidato dei liberali moderati del Psdb, al governo negli anni Novanta con Fernando Henrique Cardoso (1995-2003) e principale alternativa alle candidature presidenziali del Pt dal 2003 a oggi. Proprio Alckmin fu sconfitto da Lula nel ballottaggio del 2006 e ha fama consolidata di competente, ma antipatico. La sua candidatura, favorita dai mercati e dall’establishment economico, non è riuscita sinora a sfondare la soglia del 10% (con la conseguenza, fra l’altro, di un sensibile calo del real brasiliano rispetto a dollaro ed euro nella seconda settimana di settembre).
Gli elementi di incertezza sono poi accentuati se si considerano due dati ulteriori. Anzitutto, assieme al Presidente, sarà eletto il 7 ottobre un Congresso, il cui voto sarà necessario per l’approvazione delle leggi previste nel programma di ogni candidato alla presidenza. E in questo campo le previsioni indicano una conferma della frammentazione che da sempre caratterizza il Parlamento brasiliano, eletto con sistemi che favoriscono il radicamento territoriale e che alla Camera sono basati sul principio proporzionale. Il 'presidenzialismo di coalizione' brasiliano dovrà verosimilmente far fronte, nei prossimi anni, all’assenza di coalizioni, come quella fra il Pt e alcuni gruppi moderati (fra cui il Pmdb dell’attuale presidente Michel Temer) che ha retto il Brasile fino al 2016.
Resta inoltre forte la delegittimazione della politica, colpita a più riprese (da ultimo la scorsa settimana con l’arresto di Beto Richa, ex governatore del Paraná e ora candidato al Senato) da scandali per episodi di corruzione, tre dei quali – il Mensalão, la Lava Jato e Odebrecht – hanno avuto carattere sistematico e dimensioni gigantesche (e nel caso Odebrecht hanno coinvolto leader politici di tutti i Paesi dell’America meridionale). La legittimazione democratica di coloro che saranno eletti ad ottobre – presidente, deputati e senatori, eletti locali – sarà dunque bassa.
In questo contesto alcuni guardano a due poteri non elettivi. Da un lato il giudiziario, fortemente attivista sia in campo penale che in campo costituzionale e molto esposto di fronte all’opinione pubblica, al punto che, secondo una battuta diffusa in Brasile, per la prima volta quest’anno i nomi degli 11 giudici del Tribunale supremo erano più noti di quelli degli 11 titolari della Seleção di calcio, estromessa dal Belgio dai mondiali russi. Dall’altro i militari, di cui taluno vagheggia un intervento, peraltro assai improbabile, ma che hanno fatto sentire la loro voce critica durante la campagna elettorale con alcuni interventi del capo di stato maggiore dell’Esercito Vilas Boas. In fondo, ai tempi di Donald Trump, l’età della disruption - della rottura degli equilibri consolidati – è arrivata anche in Brasile.