Una lezione da tenere a mente per quanti, in piena febbre da spread, con un attacco speculativo sul debito italiano, suggerivano di mandare a quel paese tutti, a partire dall’Europa e dai suoi paletti, per tornare alla lira e ricominciare in buona pace con la propria valuta, stampandola a volontà, senza i rimbrotti – ma anche senza lo scudo – della Banca centrale europea. Quanto fatto a Buenos Aires dopo il fatidico 23 dicembre 2001, isolarsi dal mondo all’insegna di una quasi-autarchia monetaria, all’inizio ha prodotto risultati incoraggianti.
I governi Kirchner (Nestor e, poi, la moglie Cristina Fernandez) hanno scelto di combinare una forte spesa pubblica al controllo del cambio, prima ancorato al dollaro, con ricadute economiche a tratti folgoranti: il Pil è balzato oltre l’8%, grazie al boom delle esportazioni agricole, la soia su tutte, realizzando in poco meno di un decennio un saldo della bilancia commerciale da primato. La disoccupazione è precipitata del 50% e il tasso di povertà si è sgonfiato dal 60 al 30%. Ma nel frattempo non è stata portata a termine alcuna riforma strutturale. È invece cominciata, a partire dal 2007, una manipolazione delle statistiche ufficiali. Come accadde in Grecia, per favorire l’ingresso di Atene nell’euro. Secondo la Casa Rosada, l’inflazione viaggiava al 10%, quando in realtà correva a velocità tripla. La valuta ha iniziato a deprezzarsi e gli argentini hanno ricominciato a comprare dollari, temendo un collasso del peso, alimentando così il mercato nero e la fuga della liquidità. Quando la Banca centrale avrà esaurito le riserve per contrastare tale fuga, sarà costretta a svalutare il cambio. Provocando un crollo dell’attività economica e l’incendio dei prezzi.
L’inflazione è il modo con cui il governo mette le sue mani nelle tasche e nei depositi bancari dei cittadini, li deruba del loro potere di acquisto e ingrossa l’esercito dei poveri. L’atavica trappola sudamericana: regime di cambi flessibili, mal gestito, e iperinflazione. Tagliola che ha ripetutamente ferito l’Argentina, sino a metà Novecento fra i Paesi più ricchi al mondo, prima che iniziasse l’interminabile spirale di crisi valutarie e default. La lezione argentina è da non dimenticare. Soprattutto allorché si favoleggiano le mirabilie di un addio all’euro. Un conto è chiedere con senso e forza all’Europa di abbandonare la sola politica di austerità per favorire la ripresa. Altro pensare di salutare l’Unione e l’Eurozona per ballare da soli.
Il Nobel Simon Kuznets osservò con un’ironia non da tutti apprezzata come ci fossero quattro tipi di Paesi: sviluppati, sottosviluppati, Giappone e Argentina. L’Italia merita di restare fra i primi. E l’Argentina di trovare finalmente governanti all’altezza della sua grande tradizione per esserle a fianco.