Le cause di questa crisi sono arcinote. La finanza anglosassone ha abbandonato sempre di più la tradizionale intermediazione creditizia ed è diventata progressivamente instabile, opaca e interconnessa con un sistema finanziario ombra fuori controllo. Perseguendo, attraverso incentivi mal disegnati per trader e manager, obiettivi di massimizzazione di rendimento attraverso aumenti del rischio, ha destabilizzato il sistema economico ben sapendo che alla fine avrebbe comunque potuto privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Infatti, a pagare i costi della crisi sono sempre altri. Con un gioco di prestigio i guai combinati dalla finanza anglosassone sono stati dimenticati in fretta, mentre gli Stati nazionali che sono corsi in salvataggio del sistema finanziario, al prezzo di un aggravio di debito e deficit, sono finiti per diventare i veri colpevoli. E da allora, con un costante e sistematico spostamento di bersaglio, non si è parlato altro che degli sprechi della spesa pubblica, del costo insostenibile della politica, come se il vero problema fosse lì. Come se, per fare un esempio, il vero colpevole dell’esplosione del debito irlandese fossero stati quei fannulloni dei suoi dipendenti pubblici o i beneficiari dei servizi sociali del Paese. Tutto ciò è avvenuto invece sotto i colpi di una speculazione che, continuando a martellare, ha spostato progressivamente il limite del superfluo riuscendo a fare apparire inevitabile il sacrificio di pezzi fondamentali dei Paesi colpiti. La crisi, invece che smascherare la tendenza autodistruttiva di un sistema finanziario fuori controllo e sollecitare gli opportuni rimedi (ad esempio: la separazione tra banca commerciale e banca d’affari, un ridimensionamento della finanza derivata e una vera attività di antitrust verso le banche "troppo grandi per fallire") è divenuta l’occasione per una presunta azione "risanatrice" che si accanisce sempre più contro le sue vittime.Il nuovo atto di questo spostamento di ruoli tra vittime e colpevoli è l’attuale attacco alle fondazioni bancarie. Che nel 2010 hanno realizzato ventisettemila progetti erogando un miliardo e 366 milioni di euro nei settori della solidarietà, dell’istruzione e della ricerca, dell’arte e della cultura, offrendo una boccata d’ossigeno a territori sempre più in difficoltà. E che, in totale controtendenza, hanno impegnato attraverso la Fondazione Sud risorse importanti per finanziare progetti di eccellenza e per creare nuovo valore economico e sociale favorendo la nascita di fondazioni di comunità, stimolando risparmi locali a non prendere altre vie, ma a rinforzare capitale sociale e sviluppo del territorio. L’attacco alle fondazioni è animato da nobilissime intenzioni. Tito Boeri e Luigi Guiso, che sono tornati recentemente sul tema, si preoccupano del fatto che le fondazioni, pur scese sotto il 50%, detengano ancora pacchetti importanti delle banche di riferimento. E dunque le invitano a diversificare di più il loro portafoglio, cedendo ulteriori quote. Temono inoltre che esse «rimangano senza patrimonio per assistere non le banche, ma le persone bisognose di aiuto, in un momento in cui le risorse pubbliche per l’assistenza, la ricerca, la cultura sono più che mai limitate» (e perché mai dovrebbero fare una «cosa così grave», investendo più del loro dividendo e venendo meno ad una regola standard da sempre adottata?). E sotto sotto avanzano non troppo timidamente la proposta di "nazionalizzarle" utilizzando il loro patrimonio per ridurre il debito pubblico. Dietro questi rinnovati attacchi si cela purtroppo l’idea che società civile e sussidiarietà non siano in nessun modo distinguibili da clientelismo e spreco di risorse. Proposte come questa diverrebbero l’occasione per sbarazzarsi della sussidiarietà del Paese (quel tessuto orizzontale che Giuseppe De Rita ammonisce non deve essere distrutto per lasciare soltanto la struttura verticale pena la perdita della nostra linfa vitale) magari aprendo le porte per il controllo del nostro sistema bancario, meno coinvolto di altri nella crisi finanziaria, ad opera di quello stesso mondo finanziario le cui storture hanno generato la crisi. Le fondazioni sarebbero clientelari e inefficienti» secondo i loro detrattori. Ma in base a cosa? Sono forse state fatte valutazioni d’impatto degli interventi sul benessere dei beneficiari? E il benchmark di riferimento è l’efficienza dei grandi intermediari finanziari, che interverrebbero con capitali freschi nelle nostre banche? Cioè quegli stessi soggetti che, per intenderci, un giorno sì e uno no annunciano ingenti perdite al casinò delle scommesse sui derivati e hanno generato attraverso sistemi di cartolarizzazione avventati una crisi mondiale che ci è costata sino ad oggi svariati trilioni di dollari? Il principio, di fatto mai messo in discussione, sembra quello che a pagare debbano essere sempre solo le vittime (in questo caso i destinatari dei servizi sociali delle fondazioni, che subiscono nuovi tagli dopo la riduzione delle risorse pubbliche) e mai i responsabili dei quali possiamo al massimo implorare la benevolenza sperando in un po’ di capitalismo compassionevole. Guai infatti ad azzardarsi a chiedere un contributo sistematico per disincentivare il trading ad alta frequenza con una tassa sulle transazioni che Hollande, superando i tentennamenti europei, dal 1 agosto invece imporrà da solo in Francia copiando il modello inglese; e che l’Ue sta cercando di far approvare con il principio della cooperazione rafforzata a una maggioranza di stati membri.Ben venga, dunque, una seria riflessione sulla trasparenza della governance, sulle valutazioni d’impatto degli interventi e sui costi interni delle fondazioni, ma guai davvero se gettassimo a mare quest’altro polmone di ricchezza dei nostri territori riducendo gli spazi di libertà economica in nome di un centralismo della cui superiore "efficienza" è lecito dubitare.