Caro Avvenire,
dopo le elezioni amministrative i giornali sono pieni di commenti, di strategie, ci stancano quasi. E sembra che la politica sia solo per chi la fa per mestiere. O per chi facilmente trova da demolire quello che i nostri politici fanno di buono. Comprendere la profondità di quanto diceva papa Paolo VI – la politica è la forma più alta della carità – sarebbe di grande aiuto. Si aprirebbero prospettive nuove e costruttive. Si potrebbe sperare.
Maria Cristina Varenna Giussano (Mb)
Pochi anni fa un figlio allora diciassettenne mi disse che, da grande, avrebbe voluto entrare in politica. Ricordo bene la mia reazione istintiva: un sussulto di allarme e preoccupazione. Poi, tra me, la speranza che, crescendo, quell’idea gli sarebbe passata. Una reazione sbagliata la mia, lo riconosco. Se un ragazzo vuole fare politica per operare il bene della comunità, bisognerebbe incoraggiarlo. Perché come ricorda la signora Varenna, Paolo VI ha saputo dirci che la politica «è la più alta forma di carità». Eppure dopo oltre settant’anni di democrazia assistiamo a un disamoramento fra i semplici cittadini, quale non c’è mai stato. Registriamo un’ampia disistima per la classe dirigente, e un astensionismo dilagante.
I vecchi ricordano De Gasperi e gli altri padri della Repubblica, e si chiedono perché non nascono più uomini così. Anche chi va a votare guarda spesso con distacco e quasi noia i resoconti del voto sui media. Le ragioni, gli obiettivi, le alleanze dei leader appaiono come dette in una lingua diversa, in un codice che passa sopra le teste e i pensieri reali della popolazione. Viene da temere che si stia assistendo a una vecchiaia della democrazia, a un declino inesorabile. Eppure quanto grande e insostituibile è questo vecchio, quasi disprezzato sistema. Quanti popoli hanno lottato e lottano sanguinosamente per arrivare al diritto di voto. Mi ricordo un anziano professore di letteratura afghano, interprete per un gruppo di giornalisti italiani, che incontrai a Kabul alla vigilia delle prime elezioni in quel Paese dopo anni di totalitarismo. «Ma vi rendete conto? Fra pochi mesi si voterà liberamente!», e per l’emozione quasi piangeva. Noi italiani lo guardavamo con meraviglia. Troppo tempo è passato dalla dittatura in Italia, mi dissi, perché ci si emozioni ancora della libertà.
Forse, allora, più tempo scorre dalla conquista della democrazia, più si perde la consapevolezza di quanto questa valga? In Italia il rapporto fra cittadini e politica è stato pesantemente danneggiato dalla corruzione diffusa. Si fatica quasi a credere a ogni promessa, alla buona fede dell’altro. Eppure arrendersi è impossibile. Ricominciare, come? Io non vedo altra strada che la educazione dei figli, la formazione degli uomini. Non altra strada che il trasmettere ai figli la certezza dell’infinito valore e dignità di ogni uomo. Solo dentro questa certezza non si accetta di vendersi, solo dentro questa certezza si può operare per il bene del prossimo. E io ho sbagliato a non incoraggiare mio figlio, quel giorno. A non dirgli: se te la senti vai, datti da fare, buttati. Ma ricordati sempre dell’infinito valore che è in te, e in ogni uomo. Con questa certezza coma barra del timone, sarebbe una cosa grande se i giovani si rimboccassero le maniche per questo nostro povero, splendido Paese.