L’uomo ischeletrito giace supino e nudo su una tavola, solo i fianchi cinti da uno straccio. La luce disegna perfettamente sotto la pelle del torace le costole; la testa nell’abbandono della morte è reclinata indietro, il colorito è terreo. L’immagine è di oggi, eppure ha in sé qualcosa di antico che al primo momento l’osservatore stenta a decifrare.
L’uomo nella foto della
Associated Press è morto di fame a Yarmuk, campo profughi palestinese nei sobborghi di Damasco. Sono rimasti in ventimila, nelle baracche che dagli anni 50 ospitavano duecentomila profughi. Tutti quelli che hanno potuto, sono scappati ancora: in Libano, in Giordania, profughi di nuovo, e, si direbbe, per destino. Quelli che invece a Yarmuk sono rimasti, i più poveri, vivono da mesi sotto assedio. In trappola fra l’esercito lealista siriano e i miliziani ribelli, nel campo mancano cibo e medicinali. Giorni fa un convoglio dell’Unrwa ha cercato di portare aiuti, ma è stato costretto dal fuoco incrociato a tornare indietro. A Yarmuk si comincia a morire di fame. Le immagini da laggiù mostrano macerie e rottami, e alte colonne di fumo nero: bombe, e i falò che gli abitanti accendono, per scaldarsi, in una città in cui manca la luce, e l’acqua è razionata. L’uomo della fotografia è morto di fame il 10 gennaio. Altri, una quarantina, lo hanno già seguito.
Bambini, come la bimba la cui foto della tragedia di Yarmuk sta diventando il simbolo. In un viso livido, due enormi occhi neri che con l’ultima energia vitale fissano l’obiettivo, attoniti, come in una sbalordita domanda. Un’altra foto mostra un’adolescente con una gran treccia nera; e anche sul volto di lei la spossatezza atroce di chi è morto per fame.
Per fame, in un assedio, come mille anni fa, quando gli eserciti stringevano in una morsa le cittadelle fortificate, e senza cibo né acqua, dentro, la morte falciava a piene mani. Che accada ancora oggi di morire in un assedio, ci pare incredibile. Ma gli appelli delle organizzazioni umanitarie sono finora rimasti inascoltati. Nessuno dei due contendenti fa un passo indietro, e la comunità internazionale resta a guardare.
La condanna di Yarmuk ci pare, da lontano, così assurda. Assurdo che mentre le foto da laggiù arrivano in un istante sul web nelle nostre case, mentre gli uomini sono stati capaci di un simile progresso tecnologico, quello etico invece sia come fermo ancora a secoli remoti. Non basterebbe in fondo che lealisti e miliziani guardassero per un momento la fotografia di quella bambina, per una tregua almeno, che consenta ai convogli umanitari di passare? Ma gli uomini, nell’odio diventano ciechi. Indifferenti davanti a bambini dell’età dei loro figli, annichiliti dalla fame. Quegli uomini a Damasco, l’altro giorno, hanno lasciato che un convoglio di aiuti tornasse indietro. Nessuno ha voluto smettere di sparare. È il male, il nostro umano male ciò che ci sbalordisce in queste immagini, nella loro perfetta definizione, nel loro saper correre sul web e farsi accessibili al semplice nostro schiacciare un tasto, diecimila chilometri lontano. È quel fattore così drammaticamente umano che ci sta scritto dentro, come un marchio indelebile. (L’uomo ridotto a pelle e ossa su una tavola, vittima sacrificale di una guerra civile, che cosa ci ricorda, che pare familiare? Non, forse, la deposizione di Cristo dalla croce? Quel corpo esanime, terreo, dall’odio trasfigurato quasi in materia, in povera inerte cosa).
Apriamo gli occhi, allora. Ritroviamo la voce. A Yarmuk, tutto l’orrore della guerra di Siria è come riunito e distillato in gocce pesanti, amarissime. E niente di questa terribile e ingiusta sofferenza ci è estraneo, niente ci assolve dall’indifferenza.