In taxi verso l’aeroporto di Parigi alle quattro del mattino. Un tassista e una suora. Il tassista: «Che cosa fa nella vita? ». La suora, pensando che il resto fosse evidente dall’abito e dal crocifisso che indossa, racconta non tanto della vita religiosa quanto della sua esperienza professionale, che incuriosisce il tassista. Comincia così un colloquio su vari temi d’attualità economica e sociale. Nella semplicità del dialogo, arriva una domanda a sorpresa: «Ha marito, figli?». Sconcerto. «Ma... sono una suora!», pensando «Ma non si vede? ». Il tassista: «E allora?». Domanda spiazzante. Lei prova a far comprendere che è una scelta di vita e non un mestiere, che si dedica l’esistenza a Dio e agli altri; lo fa cercando parole che non risultino incomprensibili a chi ha fatto quelle domande. Silenzio del tassista. Ripresa: «Da quanti anni è suora?». «Da circa venti». «Ah... e niente marito e niente figli per 20 anni?». La religiosa non sa più cosa dire. E le domande continuano: «Ma quello che mi sta descrivendo è anche per i maschi?» e, per meglio capire, «Abitate dentro una chiesa?».
Temi cristiani condivisi per secoli sembrano diventati di colpo incomprensibili a tanti ragazzi
Nello scenario kafkiano in cui si sente precipitata, la suora osserva che almeno la chiesa come edificio rimane qualcosa di noto: è già un elemento di sollievo. L’eco di quel dialogo la accompagna però per tutta la giornata, con l’impressione di aver sperimentato un assaggio di una società postcristiana. La vita credente si svolge in un mondo che sempre meno possiede le categorie per leggerne segni e simboli. I linguaggi e le parole comuni per secoli nel cristianesimo e nella Chiesa sono per un numero crescente di persone, in particolare per i giovani, del tutto smarriti. Bisogna tornare con la memoria agli annunci a volte maldestri degli apostoli nei primissimi tempi del cristianesimo. Siamo nelle condizioni dei primi cristiani?
Ogni battezzato, là dove vive, intercetta oggi questioni religiose elementari, cogliendole vive come non mai. Si è rotto nelle nostre città l’immaginario tradizionale di comunità; crescono conflittualità, precarietà e sfiducia, ma ciò comporta che a tutti i livelli occorra ridirsi per quali ragioni e in nome di che cosa stare insieme, come organizzare risposte plausibili a problemi nuovi e antichi. Che cosa ci permetterà di convivere, così diversi, in modo civile? Esiste un amore affidabile, un’esperienza di sicurezza per cui non trovarsi soli e perduti? Come riprendersi dal male fatto e subìto? Che cosa ne sarà della Terra e di noi, nel futuro e oltre la morte? Sono gli accenti con cui si configura la ricerca di Dio nella prima generazione del terzo millennio, in chi attraversa senza un 'prima del 2001' adolescenza e giovinezza circondato dalle crisi. Voglia di salvezza e di senso, sebbene la disistima per le gerarchie tradizionali tenga lontani da interlocutori già dati per conosciuti. Se il cristianesimo ha un problema, in Occidente, è la comune, pervasiva sensazione di averlo conosciuto a sufficienza, senza in realtà averne fatta esperienza e indagate le profondità. È questa la differenza fondamentale tra la nostra e la Chiesa delle origini. L’onnipresenza di segni cristiani, nell’arte e nei costumi pare impedire o almeno rallentare il ritorno a Cristo come a un Nuovo.
Quanto avvenuto sul taxi parigino, in fondo, non è un episodio da isolare in Francia. Le stesse domande che hanno spiazzato una suora sono diffuse tra gli adolescenti italiani, si ascoltano anche in oratorio o nell’ora di religione. E sono proprio loro, i ragazzi, a costituire un termometro delle nostre società. Nonostante i molti dati che le ricerche ci mettono a disposizione, tendiamo a non fare realmente i conti con il fatto che la maggior parte dei giovani italiani ha interrotto il suo rapporto con la Chiesa. Molti alla domanda 'Sei credente?' rispondono: 'Sono stato educato come cattolico, ma ora non frequento', oppure 'Sono ateo', 'Non ho particolari interessi nei confronti di Dio e della religione'. Alcuni, però, non nascondono la propria fede, la professano senza ostentazioni, ma con convinzione, anche tra i coetanei. Un piccolo resto. Spesso preferiamo guardare quegli oratori ancora frequentati sia dai bambini sia da adolescenti e ci illudiamo di poter andare avanti come se niente fosse cambiato. Se ci interroghiamo con un po’ di onestà, tuttavia, sappiamo bene che non è così e che anche tra i praticanti i rapporti con la Chiesa e con il Credo sono per certi versi irrisolti, in continua evoluzione, spesso come sospesi.
D’altro canto, «essere giovani, più che è uno stato del cuore. Quindi, un’istituzione antica come la Chiesa può rinnovarsi e tornare a essere giovane in diverse fasi della sua lunghissima storia. In realtà, nei suoi momenti più tragici, sente la chiamata a tornare all’essenziale del primo amore » (Papa Francesco, Christus vivit, n.34). Il tempo che stiamo vivendo è affascinante e dobbiamo riconoscere che i giovani ci stanno abituando alla possibilità di un cristianesimo più genuino, con meno sovrastrutture. Non prevalgono contestazione o rifiuto dell’esperienza religiosa, ma si fa sentire un grande desiderio di coerenza, freschezza e semplicità: di testimoni. Quando, infatti, si prova a uscire dagli schemi e si incontrano le persone là dove sono, senza nessuna propensione al proselitismo, molti pregiudizi sul cristianesimo e sulla Chiesa si smontano nel giro di una tazza di caffè bevuta in compagnia. Si sta parlando da poco, e subito arriva una domanda sul sacramento della Riconciliazione, che trovando una risposta libera, coerente e con un po’ di coinvolgimento personale, fa dire: 'Ah, ma così non l’avevo mai vista!'. Se un prete o una suora mettono oggi piede in una grande multinazionale, magari invitati da chi la dirige a presentare il punto di vista cristiano sui temi in agenda, la loro presenza genera immediata curiosità, domande di senso, una certa nostalgia di quel mondo che in molti vorremmo abitare.
Quando ci si riesce anche a mettere in gioco – rispondendo alle domande con sincerità e calore, raccontando di sé e anche dei propri errori, non nascondendo che si è persone normali, che sanno divertirsi, stare in compagnia e godere delle cose buone della vita – si contribuisce a scardinare l’idea di un cristianesimo triste, fatto di doveri, di morale, di giudizi e pregiudizi. È questa una percezione molto comune, infatti, pur trattandosi di una grande distorsione dell’evento cristiano: un Dio che si è fatto carne e non chiede sacrifici, ma si fa sacrificio per noi. Come osserva papa Francesco, «A volte, per pretendere una pastorale giovanile asettica, pura, caratterizzata da idee astratte, lontana dal mondo e preservata da ogni macchia, riduciamo il Vangelo a una proposta insipida, incomprensibile, lontana, separata delle culture giovanili e adatta solo a un’élite giovanile cristiana che si sente diversa, ma che in realtà galleggia in un isolamento senza vita, né fecondità. Così, insieme alla zizzania che rifiutiamo, sradichiamo o soffochiamo migliaia di germogli che cercano di crescere in mezzo ai limiti » ( Christus vivit, n.232).
Durante un’esperienza negli Stati Uniti, con giovani universitari impegnati per tre settimane a ritmi serrati in un centro di ricerca, si celebra la Messa nella casa condivisa. Sembra davvero di ritornare alle origini del cristianesimo, quando la celebrazione eucaristica avveniva nelle case in cui di volta in volta ci si ritrovava. Parlandone i ragazzi all’università, si sparge la voce. E, fatto del tutto inatteso, qualcuno chiede di unirsi. Giovani che normalmente non frequentano la Messa: eppure, in un’atmosfera che sa di casa, nella semplicità, nel desiderio di interiorità ma anche di relazioni nuove, ci si lascia coinvolgere. È questa la Chiesa missionaria di cui, come all’inizio, anche oggi c’è bisogno: una comunità che può sorgere nel passaparola, in cui si diventa invito l’uno per l’altro. Vieni e vedi (Gv 1): «I giovani – ha sottolineato papa Francesco – nelle strutture consuete spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, alle loro esigenze, alle loro problematiche e alle loro ferite. [...] Si tratta piuttosto di fare ricorso all’astuzia, all’ingegno e alla conoscenza che i giovani stessi hanno della sensibilità, del linguaggio e delle problematiche degli altri giovani» ( Christus vivit, nn.202-203).
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