«Non è bene che l’Adam sia solo». La creazione si completa quando quella «cosa molto bella e molto buona», l’Adam, si svela realtà plurale, diventa persona. È appassionante e ricchissimo il ritmo che nel secondo capitolo della Genesi va dall’Adam (l’essere umano) all’uomo e alla donna. Dapprima l’Adam è posto nel giardino dell’Eden, lo accudisce e lo coltiva: quindi lavora. Due alberi hanno un nome: «l’albero della vita» e «l’albero della conoscenza del bene e del male». I frutti dell’albero della vita e degli altri alberi possono essere mangiati dall’Adam, non quelli del secondo albero. E a questo punto Elohim esclama: «Non è bene che l’Adam sia solo». E quindi: «Gli voglio fare un aiuto che gli sia pari» (2,18). Per la prima volta, in una creazione ancora tutta buona e bella, ci troviamo di fronte a un «non è bene», che riguarda la solitudine, una carestia relazionale. Inizia allora uno dei passaggi più suggestivi e fecondi della Genesi.
Davanti all’Adam si svolge una rassegna degli animali e degli uccelli del cielo. L’Adam dà loro il nome, entra cioè in rapporto con essi, li conosce e ne scopre la natura e il mistero; ma al termine di questa processione della creazione non-umana, l’Adam non è soddisfatto, perché non ha ancora trovato nessuna creatura che gli stesse accanto come un “pari”. Qui il racconto subisce una sterzata narrativa, che spinge il lettore a porsi su un altro piano, a entrare in una dimensione nuova dell’umanità. Entra sulla scena l’ezer kenegdo, un’espressione ebraica che rimanda allo sguardo e agli occhi, che potremmo tradurre: “qualcuno con il quale poter incrociare gli occhi alla pari”; qualcuno/a che sta di fronte, allo stesso livello, “occhi negli occhi”. È il primo incontro umano. I primi occhi che videro altri occhi tutti uguali e tutti diversi: «Ora sì, questa volta finalmente!» (2,23). Ed è anche l’esordio dell’uomo (maschio) e della donna: prima di questo incontro c’è solo l’Adam, il terrestre (adamah è la terra).
La storia non inizia con il peccato, ma con occhi che si incrociano alla pari. L’ezer kenegdo è la donna, l’ishàh che è di fronte a ish (l’uomo), come ish è di fronte a ishàh: «Uomo [ish] in più di donna [ishàhha] una yod, mentre donna in più di uomo ha una he: se uniamo queste due lettere che distinguono i due nomi otteniamo SIMBOLO ossia Yah, che è la forma breve del tetragramma sacro del nome di Dio» (Franco Galeone). La vera natura umana è relazionale, racchiusa e spiegata in quella relazione maschio-femmina (1,27) fondante e generatrice delle altre.
Non basta l’Eden con i suoi alberi e i suoi frutti per la felicità dell’Adam. Come non bastano gli animali, perché non sono suoi “pari” e non colmano la solitudine umana (anche se oggi una certa cultura, con il suo impressionante business, ce li presenta come sostituti perfetti degli occhi dell’altro). La possono solo accompagnare, una compagnia a volte preziosa e che aiuta a vivere, e che è tanto più buona quanto più inserita all’interno di relazioni umane. Per il piacere può bastare l’Adam, per la felicità serve ish/ishàh, e sono necessari soprattutto quegli occhi speciali che ci accolgono nascendo, gli ultimi che vedremo su questa terra, quelli che alla fine chiuderanno i nostri, e quelli che vorremmo rivedere per primi “riaprendoli”. Ma occorre allenarsi tutta la vita affinché gli occhi che cerchiamo siano quelli dell’altro/a, non i nostri riflessi nelle sue pupille; e solo quando si riesce a incontrare e riconoscere veramente l’altro nella sua vera diversità, accade che il suo sguardo ci ridoni la parte migliore di noi. La mancanza di qualcuno che ci guarda così, che ci riconosce e ci svela a noi stessi, è tra le forme più gravi di miseria e privazione della persona, molto frequenti dove ci sono grandi ricchezze e grande potere dove raramente si è guardati e amati alla pari.
È sorprendente come anche questa descrizione dell’uomo-donna voli immensamente più alta del proprio tempo. L’autore sacro attorno e dietro di sé vedeva soltanto una realtà di sottomissione e di inferiorità della donna, ma fu ispirato al punto di elevarsi per scrivere un canto alla reciprocità uomo-donna. Un canto d’amore, ma anche un giudizio critico sul mondo di ieri e di oggi, frutto di un disordine, di una deviazione, di un decadimento. Tuttavia in principio era l’ezer kenegdo. La storia umana fuori dall’Eden non è stata solo la negazione dell’Adam con Caino, è stata anche il tradimento della reciprocità primordiale dell’ezer kenegdo nei tanti “adami” che hanno profanato la parità morale, l’uguale rispetto, la libertà, la dignità delle donne.
Gli uomini e le donne hanno comunque collaborato. La donna è sempre stata il primo aiuto dell’uomo, e viceversa. Ma nelle piazze e dentro le nostre case gli occhi non si sono incrociati alla pari. Troppo grandi erano – e in troppi luoghi sono ancora – le differenze in opportunità lavorative, educative, civili, istituzionali, e spesso di felicità. Anche se, non dobbiamo dimenticarlo, persino nelle società più maschiliste del passato e del presente, ci sono sempre stati momenti e luoghi dove un uomo e una donna hanno incrociato sguardi alla pari. Tante figlie si sono salvate perché qualche volta hanno saputo vedere tra gli occhi dei loro genitori scorrere quello sguardo originario dell’Eden. E lo continuano a vedere, a cercarlo, a lottare per farlo diventare cultura, politica, diritti.
La domanda sulla relazione ish-ishàh è al cuore di ogni civiltà, quindi anche della nostra. Alcune buone risposte iniziano ad arrivare, ma continuano ancora gli inganni, come quelli così comuni nelle grandi imprese dove si pensa di aver raggiunto la pari dignità “concedendo” a (poche) donne di occupare ruoli di comando in organizzazioni dove la cultura, il linguaggio, i test di selezione, gli incentivi e le regole del gioco sono stati interamente scritti da “ish” senza “ishàh”. È immane, ma appassionante e decisivo, il lavoro che ci attende quando dovremo rivedere a partire dalla reciprocità ish-ishàh non solo il linguaggio, ma sistemi penali, scuole, politica, finanza, riscossione delle imposte. Quando manca questa reciprocità fondamentale, soffrono molto le donne, ma soffrono anche gli uomini, perché la felicità di tutti è dentro questa reciprocità tra pari. Quando perdiamo lo sguardo dell’altro e dell’altra alla pari, perdiamo il senso del limite, ci smarriamo, diventiamo padroni o sudditi, non capiamo più chi siamo, e si generano mille disordini morali e spirituali.
Sono troppe, allora, le sfide e le domande che l’umanesimo dell’ezer kenegdo rivolge alla nostra economia e società. Pensiamo al lavoro. Adam custodiva e coltivava il giardino anche nei tempi della solitudine. Si può lavorare anche da soli. Ma il lavoro è esperienza pienamente umana e luogo di eccellenza etica quando non siamo soli, e quando riusciamo a lavorare alla pari e insieme uomini e donne. I frutti del lavoro, anche quando sono stipendi milionari, se non sono condivisi a casa “occhi negli occhi” non diventano piena felicità – al massimo possono procurarci comfort e qualche piacere. Gli occhi di chi amiamo moltiplicano i nostri stipendi, possono rendere sostenibile il giogo delle disoccupazioni, e quando mancano impoveriscono anche le migliori buste-paga.
«Non è bene che l’Adam sia solo» è allora anche una parola rivolta al nostro lavoro. Abbiamo lavorato e lavoriamo nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere e siamo rimasti umani anche perché lo abbiamo fatto insieme, fianco a fianco, perché abbiamo incrociato occhi alla pari, anche quando pieni di lacrime o di rabbia. La cultura del lavoro e le sue nuove forme di organizzazione rischiano oggi di riportarci alla stagione dell’Adam solo. Non soltanto per lo sviluppo delle nuove tecnologie (dove spesso mancano occhi da guardare e corpi da toccare), ma ancor prima per una visione antropologica che pensa di aumentare il benessere e di ridurre le ferite semplicemente eliminando (o proceduralizzando e sterilizzando) gli incontri umani alla pari. E così finiamo per ricreare attorno all’individuo-lavoratore degli Eden artificiali popolati solo da alberi e da serpenti, ma senza la gioia di vivere.
Tutte le volte che non vogliamo o non riusciamo a incrociare gli occhi alla pari, finiamo per accontentarci di sguardi più bassi, chiediamo troppo poco a noi stessi e agli altri, e i frutti dell’Albero della vita restano immaturi. “Ish” ritorna triste nell’Eden senza sguardi umani, e sente ancora riecheggiare nel giardino: «Non è bene che l’Adam sia solo».l.bruni@lumsa.it