A nessuno – a cominciare dai campani che abitano in città – potrà più dire: «Non sapevo, non avrei mai potuto immaginare…». La Campania sta mostrando in questi giorni un volto stanco, triste, malinconico. Sfregiato. Chiunque conservi un po’ di buon senso non può fare a meno di indignarsi. Ovunque viva. Qualunque sia la sua condizione economica, sociale, culturale. Come è stato possibile? Come è potuto accadere? I nostri figli ce lo chiederanno un giorno. E saranno i nostri giudici più severi. Non ci perdoneranno facilmente di non avere impedito che gente senza scrupoli insozzasse loro il cielo, inquinasse il mare, deturpasse il territorio, divorasse brani su brani di futuro.In questi giorni, si è scritto e discusso del dramma senza fine dei rifiuti industriali tossici – anche altamente tossici – interrati e bruciati in alcune zone della Campania. Le foto e i filmati, realizzati dai mille volontari, dei roghi che bruciano persino in pieno giorno danno la misura della gravità del fatto. Però, diciamolo onestamente, senza l’inchiesta di Avvenire questo dramma assurdo e doloroso sarebbe rimasto, chissà per quanto tempo ancora, relegato a livello locale. Sottaciuto e dimenticato. Gli inviati, e chi ha coordinato il loro lavoro, hanno dimostrato una professionalità pari solo all’onestà. Sono stati loro a smascherare la favola della fine di un’emergenza che in realtà non c’è mai stata. Sono stati loro a chiarire l’equivoca confusione che tanti fanno – ingenuamente o per puro calcolo – tra i rifiuti urbani e gli sversamenti di tonnellate di immondizie industriali. Sono stati loro a venire sul posto, a portarsi nelle campagne per rendersi conto di persona e non lasciare niente di non indagato e di non raccontato. Si sono fatti prossimo. Hanno dialogato con cittadini, politici e amministratori; magistrati e ammalati. Hanno conosciuto chi porta nella carne il lutto per la morte della persona amata e chi ancora spera che suo figlio malato di cancro possa guarire. Hanno incontrato sacerdoti e comunità parrocchiali. Medici e contadini. Polizia e guardie forestali.E adesso lo sanno in tanti, tantissimi, se non proprio tutti. Anche tra i non addetti ai lavori. Soprattutto tra di loro. La Campania è una bella signora gravemente ammalata. Una dama dai nobili natali sciupata, con i capelli arruffati e le vesti ridotte a brandelli. Geme la Campania. Soffre, ma non smette di sperare. Piange i suoi figli tormentati, ma non cede alle minacce e nemmeno alle lusinghe di chi le impone di tacere. Non ne vogliono sapere i campani. Sono italiani e come tali pretendono di essere considerati (sapendo, è ovvio, di dover fare la propria parte). E non lo chiedono solo per se stessi. Questo scempio ambientale non riguarda solo i residenti. Se in alcuni Comuni alle pecore è vietato di brucare nei campi perché l’erba è avvelenata, ma ai contadini è concesso di coltivare, mangiare e vendere i prodotti della terra, vuol dire che qualcosa si è inceppato. Siamo alla follia. Ai diretti responsabili della salute, dell’ambiente, dell’agricoltura, dal governo centrale a quello regionale, corre l’obbligo di correre ai ripari in fretta. Da loro ci aspettiamo solidarietà, impegno concreto, verità. La Chiesa è scesa in campo. Ma per la verità da quel campo non si era mai allontanata. Non c’è omelia, catechesi, insegnamento del Magistero dove non venga riaffermato il dovere di rispettare, amare e servire l’uomo e il Creato.Chiesa santa e peccatrice. Tanto invocata e tanto bistrattata. Piccole chiese locali che lavorano instancabilmente, lontano dai riflettori. Stanno lì. Sempre. D’inverno e d’estate. Di giorno e di notte. Comunità con mille limiti, ma dalle porte sempre aperte, dove la fratellanza è vissuta senza proclami e insopportabili battimani. Dove a nessuno per entrare viene chiesto il passaporto. Occorre rendersi conto che siamo tutti sulla stessa barca. Nel bene e nel male. Anche se chi sta a poppa per troppo tempo non ha avvertito il disagio di chi sta a prua.