Un personaggio come Recep Tayyp Erdogan non aveva alcuna necessità di gettare la maschera. Perché – a differenza di alcuni satrapi suoi pari, che in qualche modo celano le proprie intenzioni dietro al paravento della volontà popolare o, la spudoratezza non ha limiti, dello Stato di diritto – il vittorioso sultano già sindaco di Istanbul, quindi inarrestabile leader durante gli anni dell’impetuosa crescita economica dell’Anatolia e oggi padre-padrone della Turchia de-laicizzata è sempre stato a modo suo coerente con se stesso, quasi cristallino. Lui vuol essere presidente a vita e signore assoluto di un Paese rimodellato a somiglianza del sultanato selgiuchide ma con una vistosa differenza rispetto a quell’impero ottomano che ebbe il suo apogeo sotto Solimano il Magnifico: quanto quello – e stiamo parlando del XVI-XVII secolo – era multietnico, multiculturale e multilinguistico, tanto la fisionomia dello Stato perseguita con grande accanimento da Erdogan è una monocultura di intonazione islamista, anti-moderna, anti-laica. L’esatto opposto degli imperi dissoltisi all’indomani della Prima guerra mondiale e più ancora della Turchia laica e cosmopolita forgiata dalle mani di Kemal Atatürk.Sulle dinamiche di quel golpe malamente condotto e altrettanto malamente concluso – quasi una replica caricaturale del putsch del novembre 1923 alla Bürgerbräukeller a Monaco, considerando che nel 1960, nel 1971 e nel 1980 i militari avevano concluso con successo il loro pronunciamento – aspettiamo il verdetto della Storia: troppe falle, troppe contraddizioni per non dire di quell’eloquente muraglia di silenzio che ha accompagnato nelle prime ore della notte la reazione delle cancellerie occidentali. Non lascia margini di ambiguità invece la reazione del governo, certamente già messa in conto e organizzata molto prima: 6mila militari, 100 generali, 8mila poliziotti, 2.700 magistrati tra cui 262 giudici militari, 15 mila insegnanti pubblici, 21mila insegnanti privati, 1.500 rettori e docenti di università e numerosi religiosi allontanati dalla loro attività, molti professionisti, tra cui giornalisti intellettuali, imprigionati, molti altri radiati e impossibilitati a lasciare il Paese, in tutto almeno 60mila persone coinvolte nella purga con l’incubo della pena di morte che Erdogan potrebbe far introdurre dopo che era stata abolita nel 2004. Una «grande purga» ora vestita anche con l’abito dello stato di emergenza.Sotto traccia è ben visibile un’islamizzazione forzata che procede a passi da gigante, assegnando alla
sharia (la legge coranica) – anche se formalmente ancora non lo si proclama – il ruolo di fonte giuridica di ultima istanza. Il ritorno del velo per le donne, il dileggio per quelle che vestono all’occidentale, il profilo femminile scolpito in una vita da reclusa in casa, scortata sempre da un uomo nelle rare uscite, si accompagna alla potente accelerazione nella de-laicizzazione della società turca. Muore il kemalismo accompagnato dal tintinnio delle manette e risplende, non senza un corposo consenso traversale da Ankara a Istanbul, dal profondo corpaccione della penisola anatolica alle coste dell’Egeo, una nuova e vecchissima Turchia depurata del passato. Ma anche, come non dirlo, dei princìpi fondativi delle democrazie occidentali. «Quasi ogni giorno – ha denunciato il portavoce del Governo federale tedesco – assistiamo all’adozione di misure che si fanno beffe dello Stato di diritto, e che non badano al principio della proporzionalità». Giuste parole, condivisibili. Non fosse che dell’Occidente, dell’Europa stessa a Erdogan oramai importa poco o nulla. Entrare nell’Unione Europa («Gli unici al mondo – ha detto con sarcasmo – che non applicano la pena di morte siete voi europei») non gli importa affatto, il teatro a cui guarda è l’Asia, il Medio Oriente, l’area caucasica, i rapporti con Mosca. Esattamente come i califfi ottomani, per i quali la Serenissima, la Spagna, la Francia, le signorie italiane erano diventate entità remote e innocue, con cui commerciare e nient’altro.Indifferente alle critiche, alle rampogne e ai richiami dei suoi alleati occidentali, Erdogan prosegue per la sua strada. Sulla quale è è immaginabile che anche la Piazza Taksim (sede storica del laicismo democratico) e la basilica di Santa Sofia diventino sedi di caserme e moschee. Tanto perché si sappia qual è l’orientamento dominante. Quello cioè dei Fratelli musulmani, di cui l’Akp, il partito di Erdogan al potere, da sempre fa parte.