L’uscita del libro “La Saggezza del tempo, in dialogo con Papa Francesco” presso Marsilio, riaccende anche sui giornali il discorso sulla vecchiaia, se serva a qualcosa, a che cosa, se la nostra epoca lo sappia e ne tenga conto, se le epoche passate lo sapessero e ne tenessero conto, se perciò erano migliori o peggiori, e, ove la nostra epoca sia segnata da un peggioramento, se c’è qualche proposta con cui si potrebbe migliorarla.
Può uno scrittore, che si riconosce come vecchio, sentirsi chiamato in causa e prendere la parola? Se può, lo faccio. I vecchi sanno una cosa che i giovani rimuovono, e poiché questa cosa è essenziale per capire la vita, i vecchi sanno qualcosa sulla vita che i giovani ignorano.
Questo rende la vita dei giovani e la vita dei vecchi intimamente diverse. I giovani vivono come se dovessero vivere per sempre, hanno una concezione interminabile della loro vita. Ieri leggevo su un altro giornale l’articolo di un collega, Vittorio Filippi, che definiva i giovani “amortali”, nel senso che non includono nel loro concetto di vita l’idea della morte. “Amortali” è un po’ diverso da “immortali”, il giovane amortale non si pone il problema della morte, vive in assenza di quel problema, se i giovani si sentissero immortali vorrebbe dire che si pongono il problema della morte e lo vincono scavalcandolo. Amortali (che accetto) o immortali, resta comunque il fatto che i giovani vivono la giovinezza e la vita come se la vecchiaia e la morte non esistessero. Vivono applicando un sistema che contiene un errore.
Poiché l’errore riguarda un punto così determinante della vita, e prima o poi salterà fuori e la vita subirà una svolta, diciamo che conoscere quell’errore è saggezza, che la vita dei giovani applica l’irruenza, la vitalità, la spinta, che fan fare cose grandi e impetuose, ma a un certo punto scoprirà altri valori, ed entrerà in crisi. In un romanzo m’è capitato di descrivere questa svolta, il passaggio di un uomo dalla vita che non finirà mai alla scoperta che avrà una fine. Datemi il tempo di ripescare questo passaggio, come allora l’ho descritto. Eccolo.
Al mio personaggio è morta la moglie e in suo ricordo lui costruisce un altare di rame. «Come è chiaro tutto ciò, e come è strano che occorra la morte per pensarci. Si dice che la morte rovini la vita: al contrario, la salva. La vita ha un errore: vive nell’illusione che la nascita si ripeta infinitamente. Poi viene la morte, tutto risulta sbagliato, ma non c’è più tempo per correggere niente. Solo la vita che non ignori la morte non si rinnegherà. Lui camminava per una vita che era cominciata male, come tutte, ed ecco era inciampato nella morte, che era lì da sempre, solo che lui faceva finta di non vederla. Per fortuna, questa morte non se ne sarebbe andata mai più. Fino a quel momento non sapeva bene cosa avesse fatto: cose destinate all’oblio. Adesso faceva un altare. Non c’era possibilità di confronto fra quello che faceva adesso e quello che aveva fatto finora.
Non che avesse fatto cose ingiuste. Ma erano cose inconsistenti sul piano della verità: solo chi ha presente che esiste la morte procede nella verità, gli altri agiscono sempre con una riserva mentale, hanno paura della morte e allora non ci pensano, come se non ci fosse. Le cose che fanno possono essere belle, intelligenti, grandiose. Non vere, che è molto di più». In casa, nelle famiglie dove si toccano più generazioni, si scontrano linguaggi diversi, tra i figli, i genitori e i nonni. I nonni hanno questa conoscenza in più e perciò hanno la saggezza. Ci si rivolge a loro per le cose di sostanza. È quel che ha fatto Désirée: era in overdose, non era più in grado neanche di tornare a casa, e l’ultima chiamata l’ha rivolta alla nonna.