Accade sovente ai martiri che il loro sangue versato produca nel tempo frutti più grandi e duraturi di quelli che con la loro eliminazione si intendeva impedire. Basta solo coglierli, per non vanificare quel sacrificio. Capita invece che a 43 anni dalla sua scomparsa (9 maggio 1978) Aldo Moro venga ancora associato quasi esclusivamente ai misteri, ai buchi neri, che hanno contrassegnato la torbida vicenda del suo rapimento e del suo assassinio per mano brigatista, come se si trattasse di alimentare un inesauribile filone di romanzi gialli, trascurando di illuminare l’insegnamento più che mai attuale di questo padre costituente e statista.
«Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime», disse Moro in un un discorso spesso evocato al Congresso della Dc del giugno 1969. Dopo 30 anni di cosiddette Seconda e Terza Repubblica a inseguire vistose quanto effimere leadership, naufragate quasi sempre sul vizio dell’autoreferenzialità e della ricerca della sterile contrapposizione, è utile riconsiderare ciò che Moro ci ha lasciato e la sua idea di «solidarietà nazionale».
Alla politica di Moro e alla «ferma determinazione» – parola del presidente Mattarella – di una sua allieva, Tina Anselmi, dobbiamo la riforma del Servizio sanitario nazionale che ci consente in questi giorni di rimettere in carreggiata una macchina che rischiava di andare fuori strada se affidata solo al fai-da-te di un autonomismo regionale che non ha dato, sempre e sul tutto il territorio, il meglio di sé nei mesi della pandemia.
Sergio Mattarella domenica 9 maggio deporrà una corona in via Caetani, e non si può derubricare l’evento come stanco rituale. Soprattutto quest’anno in cui un presidente che si richiama apertamente – da politico e da giurista – all’insegnamento di Moro lo farà per la settima e ultima volta.
In una fase cruciale della lotta contro la pandemia abbiamo alla guida del governo del Paese una "risorsa" per l’Europa intera come Mario Draghi. Un uomo capace di difendere con forza e chiarezza, sopperendo all’ignavia di altri, la dignità di Ursula von der Leyen, donna e presidente di Commissione Ue, e qualche giorno dopo avere uno schietto charimento con la stessa, chiedendo rispetto per l’Italia e garantendo, in sostanza – anche se la frase testuale è stata smentita – su una volontà riformatrice italiana fin qui sempre enunciata e mai posta in essere. A questo è legato l’utilizzo delle ingenti risorse europee cui sono legate le nostre speranze di risalire la china.
Bisogna, però, ricordare che il popolo italiano ha eletto, nel 2018, un Parlamento che in larghissima misura si presentava euroscettico e sovranista, e se la temperie di quel momento avesse avuto a disposizione la scorciatoia dell’«uomo forte» possiamo immaginare che gli italiani sarebbero stati tentati di intraprendere quella strada, prendendo le distanze dal progetto europeo, con quali effetti, ora, possiamo immaginarlo. Ma la saggezza dei padri costituenti, Moro in primis, ha voluto invece affidarsi alla più riflessiva e pragmatica strada della democrazia parlamentare e dell’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari. Così, prima c’è stata la fase dei governi Conte che, dapprima, hanno costretto le due forze politiche più anti-sistema (M5s e Lega) a cimentarsi insieme e separatamente con la prova del governo e, poi, hanno indotto entrambe a sostenere la nuova coalizione europeista accanto a Pd, Leu e Forza Italia. Non solo, dopo aver risposto all’appello di Mattarella legato a questa fase di emergenza nazionale, tutte le forze politiche fanno a gara a contendersi l’ex numero uno della Bce, che, grazie a Dio, mostra di guardare solo agli interessi generali del Paese.