L'immagine simbolo dell'esodo nel 2014 degli yadizi da Sinjar - Reuters
Più passa il tempo più è difficile salvare soprattutto i bambini. Arduan è tornato a casa a maggio, dopo sette anni. Ne aveva nove quando è stato rapito dal Daesh. Ora (meno uno) sono 2.871 gli scomparsi ed è questo il dato più terribile di ogni report: il numero dei fantasmi del genocidio yazida, donne e minori di cui dal 2014 si è persa ogni traccia, rapiti dai villaggi del Sinjar, nel lembo più a nord est dell’Iraq, per essere trasformati in schiavi. Chi è ancora vivo è nascosto come Arduan nel campo di al- Hol in Siria, in cui le madri yazide violentate fingono di essere arabe per non separarsi dai figli.
Anche negli orfanotrofi messi in piedi dai curdi o in certe case private in Iraq e in Siria, nonostante la caduta ma non la sconfitta del Califfato. «Ma molte donne e ragazze “di bell’aspetto” come le definivano dopo averle rapite, sono state vendute a personaggi provenienti da Arabia Saudita, Egitto, Qatar, Tunisia e altri Ppaesi, che poi le hanno portate con sé», spiega Azad Baris, politico e sociologo yazida, impegnato con il tink tank “Spectrum House” nella difesa delle minoranze in Turchia. Questo è il Paese da cui provenivano molti miliziani e in cui senza sforzo questi sono rientrati. E chi di loro aveva comprato o ricevuto come ricompensa una schiava yazida, da Ankara, Afyon, Aksaray e Gaziantep ha continuato a venderla o scambiarla attraverso i canali del traffico internazionale di esseri umani. L’ultimo caso a marzo. Ha sette anni: polizia e intelligence turca si sono finti suoi parenti, hanno fatto l’offerta più alta sotto l’annuncio comparso il 23 febbraio con foto e testo in arabo e curdo rintracciando poi l’indirizzo dell’inserzionista, un alto grado del Daesh di Mosul. Anche la madre era prigioniera ad Ankara. Fehim Tastekin su al-Monitor descrive quel grande hub che è la Turchia per Daesh ed elenca altri casi: a luglio 2020 una 24 enne acquistata sul mercato online due anni prima, un’altra in ottobre 2019, nel 2017 invece un ex miliziano ha tentato di registrare due bambini yazidi come suoi.
Le vendite avvengono in base alla domanda e all’offerta nella rete interna del gruppo. Ma su social e sistemi di messaggistica come Telegram, Surespot, Kik, Justpaste, ora prevale il deep Web. Rispetto alle aste online documentate nel 2016 in cui i siti e account temporanei su Facebook e Twitter pubblicavano le foto dei prigionieri in vendita cancellandole nel giro di poche ore, sul dark Web «vengono messi su chat roomper un periodo di tempo molto breve, non pubblicando un prezzo ma mettendo solo commenti come ”siamo pronti a trattare”», spiega Baris. La “consegna” avviene tramite i trafficanti di droga e armi. Ad Abdullah Shrem, ex apicoltore di Sinjar, i “contatti” di Aleppo suggerirono subito di affidarsi ai contrabbandieri di sigarette che portavano merci proibite dentro e fuori il Califfato, per fare i salvataggi. Ha raccontato di aver riportato a casa 399 persone attraverso la sua ex rete commerciale diventata intelligence, le foto e le segnalazioni, una panetteria affittata a Raqqa e una donna che vendeva abiti per bambini a domicilio per individuare i prigionieri. L’organizzazione di Baris è in contatto con reti come quella che aveva Shrem, con le Ong, con la polizia che monitora e scandaglia la rete e le autorità di vari Paesi. Ma il governo del Kurdistan non risarcisce più da tempo chi è costretto ad “acquistare” figlie, mogli o nipoti e neanche Baghdad.
Così su Twitter gli attivisti hanno lanciato una nuova campagna di sensibilizzazione: #RescueYazidisKidnapped. Per Baris non basta documentare i crimini o fare appelli: «La comunità internazionale ha istituito tribunali per i genocidi in Bosnia o in Ruanda e dovrebbe fare lo stesso anche qui». In queste ore intanto sono andate a fuoco 350 tende del campo di Sharya, vicino Dhuok, 4.000 sono state danneggiate dalle fiamme, 25 i feriti. Al campo hanno trovato rifugio dodici delle 360mila che lasciarono le proprie case sul Sinjar per sfuggire a chi li uccideva o rapiva perché «eretici». Ma tra tutte le cifre, ne spicca una: in 2.871 ancora mancano all’appello e la loro ricerca non riguarda più solo l’Iraq, la Turchia e la Siria.