In attesa tra le protezioni davanti a una gioielleria di Hanoi, la capitale vietnamita - Ansa
È uscito indenne dalla prima ondata. Ha governato, con successo, la seconda. Non solo: ha acceso i motori prima e più velocemente degli altri “concorrenti”, a cominciare dalla temibile Cina. Insomma, è tornato a ruggire. La domanda è: come ha fatto il “piccolo” Vietnam a domare il virus e ad imporsi al mondo come uno dei Paesi più virtuosi nella lotta alla pandemia, tanto da meritare la “medaglia d’argento” (dopo la Nuova Zelanda) nella graduatoria stilata dal think tank australiano, Lowy Institute che ha misurato la qualità della risposta al virus in 98 nazioni?
I numeri innanzitutto. Il coronavirus ha fatto 34 vittime nel Vietnam. I contagi, secondo i dati della Johns Hopkins University, sono inferiori a quota 2.400. A fare la differenza, rispetto a quanto è accaduto in altri Paesi, è stato un mix fatto di tempestività, di misure draconiane, di trasparenza nell’informazione oltre a una certa attitudine alla disciplina dei vietnamiti. La tempestività quindi. Appena la Cina ha fatto cadere il muro di silenzio con cui aveva inizialmente circondato i primi casi di coronavirus, Hanoi si è mossa e si è mossa velocemente. Già il 21 gennaio del 2020, il ministero della Salute vietnamita aveva emesso le prime linee guida sulla prevenzione dell’infezione e per l’individuazione precoce dei focolai. Secondo il Fondo monetario internazionale, il Paese ha imboccato una strada diversa rispetto a quella battuta dalla maggior parte delle economie avanzate. Mentre queste, per combattere la pandemia, hanno adottato una strategia di test di massa (ad alto costo), il Vietnam ha concentrato invece la sua azione di contenimento solo sui casi sospetti e considerati ad alto rischio. In pratica, nella prima fase della pandemia, sono stati condotti solo 350.000 test, una quota relativamente piccola per una popolazione che è di poco superiore ai 95 milioni di persone. Rovesciando però il punto di vista il Vietnam ha strappato un record: ha testato circa mille persone per ogni caso confermato, il rapporto più alto al mondo.
Le altre carte calate dal regime per contenere la pandemia? L’adozione di una serie di rigide misure di contenimento, dai controlli sanitari aeroportuali al distanziamento fisico, dal divieto di ingresso nel Paese per i visitatori stranieri alla quarantena di 14 giorni per gli arrivi internazionali, dalla chiusura delle scuole alla cancellazione degli eventi pubblici. La popolazione si è mostrata ligia alle indicazioni del regime: le mascherine sono state indossate ovunque nei luoghi pubblici, anche prima che l’Organizzazione mondiale della sanità ne raccomandasse l’uso, i disinfettanti per le mani sono presenti ovunque, nelle aree pubbliche, nei luoghi di lavoro e negli edifici residenziali.
Secondo il sito The diplomat, un ruolo essenziale nel contenimento della pandemia lo hanno rivestito le martellanti campagne messe in piedi dal regime vietnamita per convincere la popolazione ad assumere comportamenti “virtuosi”. Il sistema di altoparlanti, istituito allo scopo di avvisare i cittadini di attacchi e bombardamenti durante la guerra del Vietnam, è stato rispolverato per informare sul coronavirus. I cittadini hanno risposto agli appelli «come obbedendo a una chiamata patriottica e militare», scrive il sito. Il successo nella lotta al Covid si è trasformato immediatamente in carburante per l’economia vietnamita. Che nel 2020 è cresciuta del 2,9% contro il 2,3% di quella cinese. Ma non basta. La Bank of America prevede che il Pil del Paese balzerà del 9,3% nel 2021, grazie soprattutto all’esplosione delle esportazioni. Il Vietnam, insomma, ruggisce di nuovo.
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