Vaccinazione in Cile - Reuters
Lo hanno definito il «paradosso cileno». Dal 3 febbraio, quando è iniziata la campagna di immunizzazione anti-Covid, oltre il 41 per cento degli abitanti ha ricevuto almeno una dose. Solo Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno fatto meglio. Degli oltre tredici milioni di persone raggiunte, quasi sette – circa un terzo della popolazione – sono completamente vaccinate. Al ritmo delle attuali 300mila iniezioni al giorno, la meta dell’80 per cento di immunizzati entro la fine di giugno non sembra così lontana.
Eppure, nell’ultimo mese, il Paese australe ha registrato una drammatica impennata di contagiati e morti. Dalla fine di marzo, i nuovi casi non scendono sotto quota 6mila. E si conta una media di un centinaio di vittime al giorno. Venerdì, con quasi 7mila infettati e 179 decessi, il Cile sembrava essere riprecipitato nell’incubo di un anno fa.
L’apparente incongruenza è il risultato di un mix di fattori, dalla penetrazione della cosiddetta “variante brasiliana” – più letale e contagiosa –, al tipo di siero impiegato. Solo il 10 per cento delle volte è stato somministrato Pfizer-BioNTech: il resto – 90 per cento – ad essere distribuito è stato Coronavac, prodotto dal laboratorio di Pechino Sinovac, la cui efficacia è oggetto di una controversia internazionale.
Il prodotto non è stato ancora incluso nella lista di emergenza elaborata dal gruppo di consulenti strategici dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Tale reticenza è dovuta alla non pubblicazione da parte del Dragone dei dati raccolti nell’ultima fase di sperimentazione. A far aumentare i dubbi, la recente dichiarazione di Gao Fu, direttore dei Centri di controllo delle malattie di Pechino, che ha ammesso «un tasso di protezione non molto atto» da parte dei propri antidoti. Un duro colpo per l’intera America Latina, quella dove i preparati cinesi di Sinovac, Sinopharm e CanSino, sono maggiormente diffusi. Non tanto per scelta, quanto per necessità. Di fronte alle difficoltà di approvvigionarsi dalle case farmaceutiche statunitensi e europee, i Paesi del Continente – in primis il Cile – sono ricorsi all’aiuto del Dragone, molto abile nell’utilizzare i vaccini come strumento di soft-power.
A spiegare la recrudescenza della pandemia a Santiago è pure l’eccesso di «trionfalismo del governo» – come ha affermato uno studio della piattaforma Icovid, realizzata dall’Università del Cile, dalla Pontificia università cattolica e dall’Università Concepciób – che, visto il buon andamento della campagna di immunizzazione, dall’inizio dell’anno, ha rimosso le restrizioni. Salvo, ora, essere costretto a una brusca marcia indietro.
Da aprile, la nazione ha chiuso le frontiere fino al primo maggio, imposto il coprifuoco dalle 21 e il confinamento in molte regioni. Soprattutto, l’escalation di contagi ha fatto rinviare di nuovo le elezioni locali nonché quelle per designare i 155 componenti dell’Assemblea Costituente, tra cui 17 rappresentanti delle minoranze native. Previste inizialmente per il 25 ottobre, le consultazioni erano state spostate al 26 aprile, salvo poi slittare ora al 15 e 16 maggio. E non è detto che nemmeno stavolta si riesca a votare.
Un ulteriore rinvio, però, rischierebbe di far salire la temperatura politica. Il 25 ottobre dell’anno scorso, oltre il 78 per cento dei cittadini si è espresso a favore della redazione di una nuova Costituzione. Proprio con il referendum, il Paese era riuscito a dare uno sbocco istituzionale alle proteste anti-diseguaglianza di fine 2019. La piazza – il cui movimento non si riconosce nei partiti tradizionali – è pronta a dare battaglia contro altri ritardi. Nel frattempo, la popolarità di Piñera, in aumento per il successo iniziale della campagna vaccinale, è ancora una volta in caduta libera.