Economia in forte crescita, investimenti stranieri moltiplicati, disoccupazione quasi inesistente, stipendi medi bassi comparati al resto dell’Ue, chiusura netta all’immigrazione. Il dilemma ungherese del lavoro è tutto racchiuso in questi fattori. In piena campagna elettorale per le europee, il premier Viktor Orbán è davanti a un bivio: il boom dell’economia gli dà fiato per respingere i suoi detrattori, che lamentano le sue mosse per indebolire le istituzioni del Paese e la sua retorica contro gli immigrati. Ma lo stesso boom, accompagnato dalla scarsità di forza lavoro interna, ha portato negli ultimi mesi un’opposizione frammentata a unirsi su un fronte cruciale, quello del lavoro appunto.
In maniera decisiva ha contribuito l’approvazione a dicembre delle nuove leggi che consentono alle aziende di far lavorare i loro dipendenti di più (il limite di straordinari annui è passato da 250 a 400) e di poterli pagare per questo lavoro extra anche tre anni dopo. Certo, il governo insiste che si tratta solo di una possibilità, ma con le commesse in vertiginoso aumento c’è chi ritiene che i dipendenti avranno ben poca voce in capitolo. Orbán, insomma, è accusato di voler risolvere con questa “legge schiavitù” il dilemma della scarsità di manodopera in un Paese che dice no all’immigrazione. E se le manifestazioni dello scorso dicembre sono state un primo segnale di insoddisfazione, gli scioperi prolungati tuttora in corso in diverse aziende mostrano che il malcontento è diffuso.
Profughi siriani fermati alla stazione di Budapest Keleti nel 2015 - ©2015 Mstyslav Chernov, all rights reserved
“L’opposizione mente, la nuova legge è in linea con le direttive europee. È vero, ci sono state dimostrazioni, ma non particolarmente estese e durature: credo che la situazione sociopolitica sia stabile e non vediamo alcun segnale di sommovimento popolare”: Balázs Hidvéghi, già deputato e membro di Fidesz da 30 anni, oggi è il numero uno della comunicazione del partito, membro della ristretta cerchia di Orbán. Ospiti nei suoi uffici con vista sul Danubio, gli chiediamo come il governo intenda risolvere il problema della mancanza di forza lavoro, a fronte della piena occupazione e del suo no all’immigrazione.
“Nel breve periodo – spiega – vogliamo investire sulla formazione e sul cambiamento di vari elementi del sistema educativo, per rispondere più direttamente ai bisogni del mercato ungherese: ci sono ancora troppe persone che fanno lavori non qualificati che devono acquisire nuove capacità, per poter svolgere lavori migliori. Nel lungo termine – prosegue - pensiamo al sostegno alle famiglie e alla natalità. Spendiamo in proporzione la maggior parte del Pil per tagli fiscali alle famiglie e vari sussidi alla natalità, perché crediamo che questi siano passi necessari e non riteniamo che la soluzione sia importare in Ungheria lavoratori dall’estero, dall’Africa o dall’Asia. Insomma, dobbiamo fare di più perché le famiglie abbiano più figli”.
Il mercato, però, potrebbe non voler aspettare così a lungo. Non solo: già dal 2015 il governo ha intrapreso importanti politiche familiari, che però, non accompagnate da interventi più generali a livello socio-economico, non hanno dato frutti. Secondo l’Istituto centrale di statistica ungherese, il tasso di fecondità - che era lievemente aumentato tra il 2011 e il 2016 - negli ultimi tre anni è rimasto inchiodato a 1,49 figli per donna (media Ue 1,60). Se le nascite nel 2015 erano state 91.690, nel 2018 sono crollate fino a 89.800. E a gennaio di quest’anno si è registrato un ulteriore calo del 5,5%. Insomma fin qui gli interventi a favore della natalità, da soli, sembra non siano bastati. Le nuove misure annunciate a febbraio e approvate il 1° aprile dal Parlamento di Budapest- si va dall’esonero a vita dalle tasse a partire dal quarto figlio a un prestito a tasso ridotto pari a 32mila euro per le donne sposate, oltre ad agevolazioni sui mutui – riusciranno a invertire il trend?
L’Ungheria ha attratto capitali stranieri soprattutto nel settore manifatturiero fin dalla caduta del comunismo nel 1989 e ancora di più da quando il Paese è entrato nell’Ue nel 2004. La mancanza di forza lavoro ha cominciato a diventare un problema già nel 2013, ma oggi, con la disoccupazione al 3,6%, la situazione è a un punto critico. Audi, Bosch, Continental, Lego, Opel e Samsung sono tra le grandi aziende presenti nel Paese. A Kecskemét, poco più di un’ora da Budapest, Mercedes sta costruendo il suo primo impianto “Full Flex” – dove veicoli diversi possono essere prodotti in modo flessibile su un’unica linea – con un investimento da un miliardo di euro e la creazione di 2.500 posti di lavoro. Negli ultimi tre anni il governo ha ripetutamente alzato il salario minimo – dell’8% nel 2018 – mentre in generale gli stipendi hanno continuato a crescere. Ma gli economisti temono che, oltre un certo livello di aumenti, le aziende, per non dover conseguentemente alzare i prezzi dei loro prodotti, potrebbero non avere più convenienza a investire, rivolgendosi magari a Paesi vicini nei quali la forza lavoro, anche straniera, non manca. Senza contare che gli stipendi restano comunque sotto la media Ue, incentivando soprattutto i più qualificati a trasferirsi all’estero, in Paesi come Germania o Austria.
Secondo György Károly, segretario internazionale della Confederazione dei sindacati ungheresi (Maszsz), “è ovvio che le nuove leggi sul lavoro servano gli interessi del capitale e non dei lavoratori. Di quale business e di quale capitale parliamo è una buona domanda. Le nuove norme sugli straordinari favoriscono anche il servizio pubblico, in cui lo Stato è il principale datore di lavoro: ottocentomila persone lavorano per servizi e aziende pubbliche, quindi ne beneficeranno anche queste ultime, con un ritorno positivo per il governo”. Quale soluzione propongono i sindacati? “Ci sono 700mila giovani ungheresi ben istruiti che hanno lasciato il Paese: vorremmo buoni stipendi e condizioni di lavoro per loro, perché possano tornare a vivere qui”, sottolinea Károly.
Che poi osserva: “Il governo non vuole immigrati, ma solo nell’ultimo anno e mezzo circa 500mila euro sono stati usati per pubblicizzare annunci di lavoro in Ucraina e invitare quindi lavoratori ucraini in Ungheria. Ci sono aziende in cui lavorano 2-300 ucraini, e non solo quelli di origine ungherese provenienti dalla zona dei Carpazi al confine, ma anche quelli del Donbass. Quindi il governo dice di non volere stranieri, ma in realtà è pronto ad accogliere gli ucraini. Orbán sostiene che il Pil deve continuare a crescere del 4-5-6%, ma ha anche detto che c’è un problema demografico e che la forza lavoro è al limite. Se si mettono insieme questi due assunti vuol dire che qualcuno dovrà lavorare di più. Noi pensiamo che questa sia una delle ragioni dietro alle nuove leggi schiavitù sul lavoro”.
Secondo Károly “le elezioni europee saranno l’occasione per parlare di che tipo di Europa e di Ungheria vogliamo”. “Noi – evidenzia - vogliamo una società inclusiva, un’economia grazie alla quale lavorando 8 ore al giorno la gente non soffra la fame e non consenta che siano a rischio povertà 4,6 milioni di persone, quasi metà della popolazione. È un dato scioccante”.
Oltre a non accettare la ridistribuzione delle quote dei migranti, negli ultimi mesi l’Ungheria ha inasprito le leggi su asilo e rimpatri – venendo per questo deferita alla Corte di giustizia dell’Ue – e reso un reato anche le attività di quelle Ong che aiutano gli stranieri nelle procedure di richiesta d’asilo. Nel 2015 decine di migliaia di migranti attraversavano l’Ungheria per raggiungere altri Paesi europei. La risposta di Orbán fu la costruzione di un muro al confine con la Serbia lungo 175 chilometri, alto quattro metri, ricoperto di filo spinato e controllato a vista da agenti di polizia. Successivamente il governo ungherese ha costruito una seconda barriera e ha creato una divisione della polizia chiamata Cacciatori di frontiera.
Al 2016, invece, risale il referendum con cui Orbán - il cui partito Fidesz tuttora nei sondaggi per le europee gode del 50% dei consensi - chiedeva agli ungheresi se fossero d’accordo con il farsi imporre da Bruxelles “l’insediamento forzato di cittadini non ungheresi sul territorio nazionale senza il consenso del Parlamento”. “Il referendum sui profughi non raggiunse il quorum necessario perché il suo risultato venisse approvato, ma, fatto ancora più importante, il governo riuscì comunque a far passare il suo messaggio. Prima del referendum solo un terzo della gente era d’accordo con le politiche governative verso i migranti, dopo questo dato è salito a due terzi”, spiega Petra Bárd, che insegna Diritto costituzionale europeo alla Central european università di Budapest. La consultazione del 2016 ebbe un’affluenza del 43%: a scegliere il no ai rifugiati fu il 98% dei votanti, segno di quanto la propaganda governativa avesse funzionato.
A dominare la campagna elettorale governativa furono gli slogan contro gli stranieri “parassiti criminali”. Una retorica che dai rifugiati è passata poi a identificare in toto gli stranieri e i migranti, in particolare quelli in arrivo dal Medio Oriente, come “invasori”, un tema protagonista anche dalle elezioni politiche del 2018. Irrisolti, sullo sfondo, sono invece rimasti i nodi relativi all’economia e alla forza lavoro, un bene che in Ungheria è diventato sempre più raro e prezioso.