Carri armati israeliani lungo il confine settentrionale del Libano - Ansa
Il varco nella recinzione è aperto. Nel mezzo, come indica il cartello color acquamarina, passa la strada che collega Israele al Libano. A qualche centinaia di metri, c’è la collina dove scorre la serpentina del muro di separazione. Fino a un anno fa, l’altopiano era d’un verde intenso come la foresta intorno. Ora è una radura annerita dal fuoco e dal fumo in cui resistono alberi solitari. È uno dei molti volti di una guerra che, dal 7 ottobre, il mondo cerca faticosamente di impedire. Ma che, al contempo, in questa fascia di terra in bilico tra i due Paesi, è già presente. La strategia del “colpo su colpo” tra l’esercito di Tel Aviv – Tzahal dall’acronimo – e Hezbollah, cominciata all’indomani del massacro di Hamas, ha subito una drammatica accelerazione questa settimana con i raid massicci degli israeliani sul territorio libanese.
Ieri, l’ulteriore escalation con l’attacco «senza precendenti» – così l’ha definito la tv di Hezbollah, al-Manar – su Beirut. Il quartiere sud di Dahiyeh è stato ridotto a un cumulo di macerie insieme al comando centrale della gruppo armato filo-iraniano. Non era mai accaduto niente di simile dal 7 ottobre. Già nelle ore precedenti, la autorità sanitarie libanesi stimavano in almeno 700 le vittime di cinque giorni di offensiva. Nove erano esponenti di una stessa famiglia di Chebaa colpita da un raid mentre dormiva. Secondo le Nazioni Unite, quello attuale è il periodo più letale da una generazione per il Paese dei cedri. La catastrofe pesa come un macigno sulle spalle dei civili. Sui bambini, però, l’impatto è ancora più devastante: «Sono uccisi a un tasso spaventoso», ha tuonato l’Unicef. Se durante il precedente conflitto, nel 2006, il ritmo era di 12 al giorno, solo tra lunedì e martedì sono state registrate 50 piccole vittime. E sotto le macerie potrebbero essercene ben di più. Di fronte all’intensificazione dei raid, i miliziani sciiti hanno alzato letteralmente il tiro. Ieri, i una raffica di dieci razzi ha puntato Haifa, la terza città di Israele. Altri dieci – incluso un missile Fadi-1, – sono stati scagliati sulla Bassa Galilea, lungo il lago di Tiberiade: nella comunità di Ilana, un 25 enne è stato ferito. Gli Houthi, poi, dallo Yemen hanno lanciato ordigni su Tel Aviv e Ashkelon, minacciando «altre operazioni». Nell’estremo occidente del confine israelo-libanese, a ridosso della costa, però, si respira una calma irreale. Guardando la rete metallica che attraversa la terra di nessuno, viene in mente il verso del poeta argentino Paco Urondo: «Dall’altra parte della rete c’è la realtà, da questo lato della rete anche c’è la realtà; l’unica irreale è la rete». L’esercito ripete che tutto è pronto per l’invasione. Fonti militari di Tel Aviv hanno cercato, però, di smorzare i toni. Innanzitutto l’operazione di terra è, al momento, ancora «un’eventualità». In ogni caso, «sarebbe il più breve possibile». Nel frattempo, altre due altre due brigate hanno raggiunto la frontiera: sono da qualche parte, qui intorno. Ci si deve arrampicare ancora più su per imbattersi in una squadra di soldati di Tzehal che presidia il kibbutz Hanita, trasformato in area militare. La prima, ad ovest, delle decine di comunità-fantasma dislocate in un raggio di dieci chilometri dal confine: i loro abitanti, 60mila persone, sono sfollati da quasi un anno. Anche la cittadina di Shlomi, appena più a sud, è deserta: degli 8mila residenti, ne sono rimasti trecento. Vika ha rifiutato di partire e, ogni giorno, raggiunge Hanita per consegnare i pasti caldi ai soldati. «Certo che ho paura, ma come facevo ad andarmene e ad abbandonarli? Mio figlio è nell’esercito, sta combattendo da qualche parte vicino al Golan. Vorrei che ci fosse qualcuno che cucina per lui», afferma la donna, dai capelli lunghi raccolti in una coda, mentre mostra la foto del ragazzo in divisa. «Ha 19 anni – aggiunge, prima di salire in auto per consegnare le vettovaglie –. Lo scriva, per favore. Noi non ci battiamo contro i libanesi ma contro Hezbollah. Sono loro a non volerci qui».
Imboccando la strada n.22, verso sud, dopo un breve tratto di costa, si arriva a Saar, che in ebraico significa “tempesta”. Il kibbutz omonimo, però, disseminato di cespugli di lavanda e circondato da campi di avocado, infonde una sensazione immediata di tranquillità. Almeno fino a quando il tonfo sordo di un’esplosione squarcia l’aria, ricordando che questa è zona di guerra. Situato a undici chilometri dal confine, è l’ultimo avamposto prima della fascia evacuata in massa. «Anche da qui la gran parte è andata via all’inizio. Siamo rimasti in un centinaio. Poi, però, nei mesi successivi, quasi tutti – più o meno l’85 per cento – sono tornati. E sono rimasti nonostante l’escalation delle ultime settimane», racconta Yair Boimel, storico in pensione e portavoce del kibbutz. Tre giorni fa, una bomba è precipitata a cinquanta metri da dove vive. Tre case e un’auto sono state danneggiate. In una, un gruppo di operai stava lavorando alla ristrutturazione: due sono stati feriti. É stata la prima volta per la comunità dal 7 ottobre. «Eppure resto convinto che nessuno abbia interesse a una guerra su vasta scala che distruggerebbe almeno la metà di Israele e i due terzi del Libano. E, poi, come tutti i conflitti, dovrebbe concludersi con un accordo. Non è più logico trovare un’intesa prima?».