Natalia Grizenko davanti alla sua casa distrutta nel distretto di Gostomel - Gambassi
Fra le macerie della casa, in una delle canne fumarie che sembrano restare in piedi per miracolo, ha sistemato la bandiera dell’Ucraina. Volodimyk la mostra con orgoglio. La casa di famiglia, quella in cui hanno vissuto i genitori e dove è nato lui insieme con la sorella Natalia, non esiste più. È un cumulo di detriti da marzo quando «in una delle battaglie che hanno salvato Kiev dall’assedio russo», come racconta, un colpo d’artiglieria partito fra le fila dell’esercito di Mosca l’ha rasa al suolo. Ma lui è ancora lì, a distanza di dieci mesi. «Non me ne vado», ripete. All’inizio ha trovato un letto da alcuni amici che «mi hanno ospitato con generosità». Ora vive in un monolocale-container donato dal governo polacco che ha voluto fosse sistemato nel proprio giardino, in mezzo agli ammassi di mattoni affumicati e alle carcasse arrugginite di quelle che erano la lavatrice, la cucina a gas o la stufa a legna. E come lui decine di famiglie del villaggio di Moshchun, terreno di combattimento nel primo mese di guerra. Hanno le case ridotte a brandelli, ma restano dove hanno le loro radici.
I prefabbricati dove gli abitanti del distretto di Gostomel vivono in mezzo alle macerie delle loro case - Gambassi
Moshchun è uno dei quattro agglomerati riuniti nell’amministrazione militare di Gostomel. Un nome mutuato dal paese a trenta chilometri dalla capitale che non è salito sulla ribalta internazionale come Bucha o Irpin, ma che ha subito la stessa sorte: devastato pur di difendere Kiev. Bucha e Irpin sono a due passi: una rotatoria smista il traffico fra le due cittadine e Gostomel. Il lungo viale che taglia l’abitato mostra ancora in modo tragico i segni della distruzione, soprattutto nelle abitazioni. Troppe quelle finite nel mirino. E chi si incontra per strada indica i punti in cui qualcuno è stato ucciso lungo i marciapiedi oppure catturato dai soldati.
La distruzione nel distretto di Gostomel a trenta chilometri da Kiev - Gambassi
Però ciò che racconta oggi Gostomel non è soltanto l’annichilimento che si lascia dietro l’invasione russa, quanto la resistenza di un popolo che non si piega alla follia della guerra. Perché questo è, sì, uno degli angoli nella regione di Kiev più sfregiati; ma la gente non l’ha mai abbandonato. «Anzi, la popolazione è aumentata rispetto all’inizio dell’aggressione su vasta scala: eravamo 30mila prima dello scorso 24 febbraio, quando il Cremlino ci ha attaccati; siamo 32mila adesso, distribuiti fra Gostomel, Horenka, Moshchun e Ozera», spiega il capo dell’amministrazione militare, Serhii Borysyuk. Un paradosso se si considerano i numeri dello sfacelo bellico che il militare elenca nel suo ufficio al primo piano del municipio risistemato a tempo di record: «Quattromila fra morti e dispersi. E migliaia di edifici colpiti, in base a quanto abbiamo censito: 3.340 case, 136 condomini, undici scuole, quattro ospedali. Poi le fabbriche di cui una completamente distrutta. Ma è un computo per difetto: sicuramente gli stabili lesionati sono molti di più».
La distruzione nel distretto di Gostomel a trenta chilometri da Kiev - Gambassi
Basta andare nel quartiere vicino all’aeroporto militare da cui è partito l’assedio russo: le palazzine sono scheletri anneriti e le facciate un cratere dopo l’altro. Allora viene da chiedersi come possano crescere i residenti. «Le nostre comunità sono rimaste salde. Hanno stretto i denti e si sono rimboccate le maniche. Poi hanno anche aperto le braccia agli sfollati interni», dice il capo dell’amministrazione locale. Sono i profughi arrivati dall’est dell’Ucraina. «La maggior parte è fuggita dai territori occupati. E qui ha trovato rifugio da parenti o conoscenti disposti a condividere uno spazio domestico e a farsi carico di quanti sono più in difficoltà di loro; oppure sono alloggiati in centri d’accoglienza».
Il capo dell’amministrazione militare di Gostomel, Serhii Borysyuk - Gambassi
Serhii Borysyuk siede alla scrivania che era stata di Yuri Illich Prylypko, il sindaco che un cecchino ha freddato mentre scendeva dall’auto per consegnare gli aiuti a una famiglia. Era marzo. «È successo a poche decine di metri da qui. Sette i colpi contro di lui». La vettura bianca con i fori dei proietti che sono ben visibili sui sedili e sulla carrozzeria è conservata come una reliquia dell’orrore dietro il municipio. «È un eroe lui, com’è eroica tutta la nostra gente che con il suo sacrificio ha fermato l’assalto russo alla capitale». Gente che da settimane prova a sanare le piaghe urbane del conflitto. «Anche con l’aiuto dei volontari stiamo riaprendo due scuole», fa sapere Borysyuk. E il Comune è pronto a finanziare mille famiglie che hanno visto infissi e finestre incendiate dalle esplosioni arrivate dal cielo.
Le case ancora distrutte nel distretto di Gostomel che sono state bombardate a marzo - Gambassi
Certo, per capire la tenacia di quattro paesi, due rimasti in mano russa per oltre un mese e due al centro del fuoco incrociato fra le truppe di Mosca e quelle ucraine, bisogna tornare a Moshchun. «Non c’è casa che non sia stata bombardata», riferiscono Valentin e Natalia Grizenko. Lui ha 64 anni, è un ex ferroviere e, quando si è trovato l’esercito del Cremlino dietro l’angolo, è entrato nella resistenza locale armata per lottare contro il nemico. Natalia apre il cancello della sua villetta abbattuta da un razzo. «L’avevamo finita un paio di mesi prima», sussurra. E si tocca la gamba ferita durante la fuga dal fuoco che aveva avvolto ogni stanza. Vorrebbe piangere. Ma la guerra ha anestetizzato le sue lacrime: non la voglia di vivere nella propria terra ferita. C’è chi ha risistemato il tetto con il nailon pur di non andarsene. Chi si adatta a stare nei prefabbricati che emergono fra i ruderi: un cavo provvisorio li collega ai contatori elettrici sui pali della luce ricollocati da poco e lo scarico finisce direttamente nel giardino. Anche il negozio di alimentari è in una struttura mobile. Ma il centro culturale è già stato ricostruito. Sui primi alberi che annunciano il bosco i cartelli lanciano l’allarme: “Zona a rischio mine”. Le hanno seminate a spregio i militari occupanti. Dall’altro lato della strada il cancello della famiglia di Aleksandr è diventato un quadro: sulla lamiera, intorno a ogni foro causato dalle schegge di una bomba, è stato dipinto un fiore. «Li hanno fatti i miei figli - dice -. Non è un cimitero il nostro villaggio. Ci siamo ancora, nonostante la distruzione e il dolore».
Il cancello forato dalle schegge di una bomba e colorato dai ragazzi - Gambassi