Un volontario Focsiv visita una anziana profuga irachena in Cappadocia (Foto Cristian Gennari)
L’appartamento nella moderna palazzina in una città della Cappadocia, assieme ai profughi iracheni, è l’unica presenza cristiana in questi luoghi dove fino agli anni ’60 del secolo scorso tante chiese erano ancora aperte. «Siamo l’unica famiglia cristiana del condominio», raccontano a suor Anna Maria Sgaramella, comboniana che assieme ad altre due religiose, nella nuova comunità nata dall’accordo fra due congregazioni femminili, ha vissuto il suo primo Natale in Turchia. Una nuova “missione”, dopo diversi anni in Egitto, e tante notti di Natale passate alla basilica della Natività a Betlemme.
Il giorno di Natale deve essere passato, tutto intorno nel quartiere (che, come la città, non identifichiamo), come un qualsiasi giorno che si avvicina alla fine dell’anno. In pochissimi, poi, devono aver notato, la domenica precedente, una assemblea di cristiani riuniti in quello che abitualmente è un salone per festeggiare i matrimoni. Era la Messa di Natale che il nunzio apostolico Paul Fitzpatrick Russel ha voluto celebrare con le famiglie di profughi iracheni cristiani accolti nella «città satellite». Un momento di festa atteso da mesi, con il solito rimpianto sulle labbra: «Non c’è una chiesa lamentano tutti gli iracheni. Un luogo dove pregare, ma anche dove ritrovarsi », spiega suor Anna Maria. Stranieri in terra straniera.
Eppure la visita agli ammalati, per portare l’Eucaristia, segno di una povertà assoluta in una società che conosce solo le luminarie per il Capodanno, è capace di suscitare stupore: «Quando a quella donna anziana, più che novantenne, ho chiesto di pregare per me dopo averle portato la comunione, ho udito che in mezzo alle sue invocazioni inseriva delle frasi del credo: un bisogno, in questo contesto culturale di fortissima minoranza, di affermare la propria fede cristiana», racconta suor Anna Maria. Una fede scritta nella storia di questa etnia e nella lingua aramaica parlata in famiglia e usata nella liturgia caldea, che non cancella certo il dramma di una dura quotidianità. «Vi è il desiderio di avere, come cristiani, una formazione sulla Parola di Dio e dei luoghi per costruire relazioni fraterne». Come il desiderio, almeno fra i più giovani, di imparare il turco, in attesa di un visto per l’Australia e gli Usa che potrebbe non arrivare mai. Intanto «non si lamentano in modo eccessivo rispetto al loro passato. Si sentono accompagnati dalla consapevolezza di una benedizione che non viene a mancare anche in questa situazione di profughi. Benedicono la terra che li ospita e chiedono una benedizione per il loro futuro».
A queste famiglie di cristiani, il Celim (Focsiv) distribuisce 45 pasti al giorno e ha istituito dei centri informali di studio per una ventina di ragazzi, dai 9 ai 14 anni. È il Natale in Cappadocia, il primo per suor Anna Maria dopo i tanti in Terra santa. Nessuna basilica a ricordare l’Incarnazione, ma famiglie di profughi in ordinari appartamenti in affitto. La nostalgia di antiche feste e di saluti nei viali centrali dei villaggi nella Piana di Ninive, fra i profughi è lancinante. Nel nascondimento più totale, resta una consapevolezza: «A Betlemme si celebra il Natale. Dove invece Gesù non è riconosciuto, dove si vive la fede nel nascondimento, si percepisce la consapevolezza di essere in qualche modo una presenza del volto del Dio incarnato». Cristiani esuli, come la Sacra famiglia costretta alla fuga in Egitto che – ricorda suor Anna Maria Sgaramella – al suo interno custodiva la presenza di Gesù di Nazareth.