mercoledì 3 luglio 2024
Al primo vertice con i delegati dell'Emirato, le Nazioni Unite hanno ribadito la linea rossa dei diritti femminili. Ma i delegati di Kabul puntano sulle rivalità internazionali per trovare sponde
Il portavoce dell'Emirato, Zabiullah Mujahid

Il portavoce dell'Emirato, Zabiullah Mujahid - Ansa

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Non un riconoscimento. Né una riammissione formale all’interno della comunità internazionale e delle istituzioni che la rappresentano. Che cosa è stato il primo vertice ufficiale tra i delegati delle Nazioni Unite e i taleban, al potere a Kabul dal 15 agosto 2021? Le risposte divergono a seconda di chi le proferisce. L’Onu lo ha definito un «primo passo». Un ribalta «da cui i messaggi dell’Afghanistan sono arrivati al mondo», ha enfaticamente commentato su X il portavoce dell’Emirato, Zabiullah Muhahid. Per molti e importanti esponenti della società civile nonché attivisti per i diritti delle donne è stato un «tradimento». Dal punto di vista dell’analisi politica, la conferenza terminata ieri è stata una prova di forza. Onu e rappresentanti di una trentina di Paesi da una parte, e ex studenti coranici dall’altra, si sono visti faccia a faccia per studiarsi e, soprattutto, per saggiare i limiti della tolleranza degli uni nei confronti degli altri.

Zabiullah Mujahid ha messo in chiaro senza reticenze la propria “linea rossa”: i diritti e le libertà femminili – negati – sono un «affare interno». L’Emirato si basa su una serie di «valori e concetti» che «devono essere riconosciuti»: tra questi l’esclusione delle afghane dall’istruzione post-elementare, dalla pubblica amministrazione, dalle principali professioni, perfino dai parchi.
Le divergenze di principi fra gli Stati sono «naturali» ma – ha aggiunto il portavoce di Kabul – questo «non deve impedirne la collaborazione su questioni di mutuo interesse».

In primis narcotraffico, investimenti e normalizzazione del sistema bancario afghano. I punti, cioè, rimasti in agenda dopo che i taleban hanno fatto stralciare ogni riferimenti ai dossier donne, minoranze e diritti umani. Stavolta – a differenza dello scorso febbraio quando l’irremovibilità ad avere al tavolo la società civile aveva determinato l’assenza, all’ultimo, dei taleban –, le Nazioni Unite hanno ceduto. Scatenando un coro di critiche e polemiche. Dalla Nobel Malala Yousafzai alla candidata e nota attivista Mahbouba Seraj, tanto hanno definito il summit «un inganno». A fine conferenza, la segretaria generale aggiunta per gli affari politici e umani dell’Onu, Rosemary Di Carlo, ha tenuto a ribadire che «l’Afghanistan non può tornare sulla scena internazionale o svilupparsi pienamente economicamente e socialmente se viene privato dei contributi e del potenziale di metà della popolazione». Formalmente, dunque, la chiusura è netta. I taleban, però, hanno nelle loro mani dei grimaldelli affilati per cercare di aprire delle fessure. Prima di tutto il nodo del narcotraffico.

L’Afghanistan è l’epicentro mondiale della produzione di oppio. Il bando alle coltivazioni di papaveri, imposto nell’aprile 2022 e diventato operativo l’autunno successivo, ha portato alla distruzione del 95 per cento del raccolto, come ha certificato la stessa Agenzia Onu per la droga e il crimine (Undoc) la settimana scorsa. La quantità globale di eroina si è ridotta a un quarto, con effetti ad alto impatto soprattutto per il rischio di una sostituzione con droghe sintetiche. Il messaggio, però, è inequivocabile. In meno di due anni, i taleban hanno fatto quello che, per vent’anni, le forze internazionali non sono riuscite a fare, nonostante l’1,5 milioni di dollari al giorno sborsati per contrastare la produzione di stupefacenti. Gli ex studenti coranici hanno dimostrato, così, di avere il controllo del territorio e di chi vi risiede. E, soprattutto, di potere aprire o chiudere i rubinetti dell’eroina a seconda delle necessità, destabilizzando il mercato globale.

L’urgenza impellente ora è attivare una sorta di fondo di emergenza per i coltivatori di papaveri, il cui reddito è stato polverizzato dal divieto. Un dramma nel dramma di una popolazione che all’85 per cento sopravvive con un dollaro scarso al giorno. Per riattivare l’economia – ferma dopo il taglio degli aiuti internazionali che rappresentavano di tre quarti del bilancio –, i nuovi-vecchi signori di Kabul puntano a riavere indietro i 9,5 miliardi di dollari della Repubblica depositati nelle banche Usa e Ue e congelati dal 2021. Circa sei miliardi sono tuttora bloccati e l’Emirato li reclama, sottolineando la catastrofe umanitaria in atto.

In realtà, le Nazioni Unite hanno cercato di supplire investendo quasi tre miliardi di dollari per sostenere la popolazione. Gli ex studenti coranici, però, cercano liquidità. Per questo, chiedono di rientrare nel circuito bancario internazionale da cui sono esclusi in quanto non riconosciuti da nessun Paese tranne il Nicaragua. Nel frattempo, vanno avanti grazie agli investimenti cinesi. E qui c’è il secondo grimaldello: sfruttare le crescenti rivalità nella comunità internazionale per ottenere sostegno. A partire dagli ex odiatissimi invasori russi. Proprio a Doha, l’inviato all’Onu, Vasilij Nebenzya, ha ventilato la possibile revoca delle sanzioni mentre il Kazakistan l’ha già fatto. Secondo Zabiullah Mujahid, Iran, Pakistan, Uzbekistan, Kirgizistan e Turkmenistan hanno mostrato disponibilità. La speranza dei taleban è che Usa e Occidente aprano spiragli per non far guadagnare spazio ai concorrenti. Un obiettivo irraggiungibile se non fosse così evidente lo stallo della diplomazia internazionale, intrappolata nella politica del tutto o niente, salvo diverso interesse strategico. E incapace di trovare vie creative di dialogo senza cedere sui principi fondamentali.

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