Il presidente egizianoAbdel Fattah al-Sisi - Ansa
L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi farà di tutto pur di salvare l’alleato libico Khalifa Haftar. Il feldmaresciallo, infatti, rappresenta una torre strategica sullo scacchiere della politica regionale egiziana, imperniata sul contrasto dell’islam politico. In quest’ottica si spiega il supporto che Il Cairo sta garantendo all’uomo forte di Cirenaica anche adesso che la sua campagna di conquista di Tripoli, lanciata nel mese di aprile, sta naufragando: l’espulsione dalla città di Tarhuna del cosiddetto Esercito nazionale libico di Haftar, una settimana fa, è stato un duro colpo per il feldmaresciallo e i suoi alleati. Il rischio che il blocco di clan e milizie da lui coagulato perda il controllo pure dell’Est del Paese, ora che la Turchia ha messo più di un piede in Libia (con il supporto al premier Fayez al-Sarraj), è così concreto da spingere l’Egitto a prendere tempo con la messa a punto di un tavolo negoziale. Se il contesto offrisse più scelta, «Khalifa Haftar non sarebbe il miglior cavallo su cui puntare », spiega Giuseppe Dentice, analista dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi): la sua biografia, costellata di (poche) vittorie e (tante) sconfitte, fra di loro tenute assieme da ambizione e propensione a cambiare rapidamente casacca, non offre certezze, ma «non ci sono al momento alternative».
«Per l’Egitto, la Libia è importante in termini sia di relazioni bilaterali – commerciali, energetiche, di collaborazione in funzione anti-terroristica – sia di quadrante mediterraneo- africano», aggiunge Dentice, ampliando il campo di analisi. Oggi, infatti, l’Egitto è letteralmente accerchiato da avversari politici ( Turchia e Qatar) e competitor economici (i sultanati del Golfo). Ad essi si aggiunge la minaccia del jihadismo armato, sull’uscio di casa: nel governatorato del Sinai Settentrionale, da sei anni le forze di sicurezza egiziane sono impegnate in un conflitto – quanto intenso non è dato sapere fino in fondo – contro jihadisti fedeli al progetto del nuovo califfato. Solo due settimane fa, le cittadine di Rafah, Bir al-Abed e Sheikh Zuweid sono state teatro di uno scontro durissimo fra mujaheddin e truppe speciali del Cairo, che ha ammesso di aver subito alcune perdite. Su quel fronte, insomma, la presidenza al-Sisi non riesce a ricacciare il nemico jihadista, evidentemente ancora sostenuto, in modo ambiguo e con diverse sfumature, dai suoi padrini regionali nel Golfo e nel Mediterraneo – Qatar e Turchia, appunto – pure protettori della Fratellanza musulmana. Anche sul confine meridionale dell’Egitto, il nemico numero uno si conferma Ankara, che ha trovato orecchie interessate alla cooperazione in Sudan: «Con grande lungimiranza, da decenni la Turchia si muove nel continente africano per creare i presupposti di una presenza economica e politica.
L’Egitto, dal 2013 in poi, ha preso consapevolezza di questa penetrazione, cercando di ritrovare un proprio ruolo africano in opposizione ad Ankara e pure a Emirati arabi e Arabia Saudita, altrettanto attivi nell’area». Ma è Ankara la bestia nera del Cairo e del suo attuale regime militare. Una percezione non infondata, stando alle rivelazioni giornalistiche apparse sulla stampa africana e turca (in lingua inglese) nelle ultime settimane, e riguardanti in particolare il corpo militare scelto Sadat, alle dirette dipendenze di Erdogan: secondo le ricostruzioni, questa élite sarebbe stata impegnata, nell’ultimo decennio, nell’addestramento di gruppi islamisti in Mali, Nigeria, Repubblica centrafricana, oltre che in Siria e Iraq. Uno scenario che Il Cairo intende scongiurare in ogni modo in Cirenaica, «con Haftar o un altro, se dovesse comparire un sostituto con una visione politica adatta », conclude Dentice.