«Continuiamo a pensare: quando potremo tornare? Quando potremo studiare ancora?». Sono le parole del 18enne Nurul Amin, contenute nel rapporto che l’Unicef ha pubblicato in questi giorni sul mezzo milione di giovani rifugiati di etnia rohingya in Bangladesh. «Una generazione perduta» se il mondo non darà loro educazione e la possibilità di integrarsi.
«Siamo pronti a tornare a casa. Ma come possiamo fare se c’è ancora la guerra?», si domanda Abu Ahmad, 52 anni, la cui figlia disabile è assistita da Medici senza frontiere (Msf) a Kutupalong. È passato un anno da quando attacchi coordinati contro varie postazioni della polizia birmana nello Stato Rakhine a ridosso della frontiera bengalese ha fatto esplodere la tensione: oltre 700mila musulmani Rohingya sono dovuti fuggire in Bangladesh.
La responsabilità è stata attribuita a militanti dell’Arakan Rohingya Salvation Army e come ritorsione, le forze di sicurezza e i paramilitari hanno avviato una campagna di stupri, incendi e devastazioni contro la minoranza. Oggi, dei due milioni stimati di Rohingya, forse solo il 20 per cento resta in Myanmar. Inimmaginabile la situazione di affollamento dei campi nella regione di Cox’s Bazar, dove i disagi si fanno ancora più visibili nell’attuale stagione dei monsoni.
La solidarietà internazionale e la cooperazione del governo di Dacca hanno fatto molto per limitare conseguenze letali anche per i 50mila bambini nati nei campi. A preoccupare ora, al di là di un accordo per il rientro che non decolla, è soprattutto lo sfruttamento dei profughi. Potenti reti di trafficanti approfittano della difficoltà esercitano una vera e propria autorità parallela, con la complicità, spesso, delle autorità e degli stessi leader Rohingya.
Tre sfollati sono stati uccisi nelle ultime settimane per essersi opposti ai racket. I responsabili primi di questa situazione, i militari birmani, continuano a negare ogni abuso. Il governo di Naypyidaw – con un ruolo di primo piano di Aung San Suu Kye, “eroina” della lotta nonviolenta per la democrazia e per questo premiata con il Nobel per la Pace nel 1991 – ha annunciato da tempo una commissione d’inchiesta, ma difficilmente porterà a qualche risultato.
Intanto, però, la stessa Aung San Suu Kyi ha detto, pochi giorni fa, in un discorso a Singapore, che la repressione e i massacri hanno avuto origine nelle «iniziative terroristiche dell’Arsa» e che occorrerà evitare ulteriori «azioni destabilizzanti » di questo o altri gruppi. La frase, probabilmente un atto dovuto data la tutela delle Forze armate sull’esecutivo, è stata interpretata come una giustificazione della repressione. Immediata la reazione internazionale.
«È scaduto il tempo delle manovre interne che hanno come sola ragione di deviare la pressione internazionale e non di cercare le vere responsabilità. Non possiamo consentire che queste atrocità abbiano luogo impunite», ha dichiarato in vista dell’anniversario Eva Kusuma Sundari, membro della Camera dei rappresentanti indonesiana e esponente dei gruppo Parlamentari Asean per i diritti umani. Quest’ultima ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di portare il Myanmar davanti alla Corte penale internazionale.
Il Paese non è tra i firmatari dello Statuto di Roma e di conseguenza non è sotto la giurisdizione della Corte. Essa può però attivarsi se richiesto dall’Onu. Anche perché la situazione dei Rohingya riflette quella di altre minoranza etniche come i Kachin e gli Shan, per decenni vittime dei metodi brutali dell’esercito birmano. Come gli studenti delle università di Yangon che proprio vent’anni fa chiesero la libertà all’allora regime militare e vennero uccisi a centinaia. Il loro sacrificio ispirò a Aung San Suu Kyi la decisione di restare nel Paese, affrontando carcere e persecuzione.