lunedì 16 agosto 2021
Appello dell'Alleanza dei piccoli Stati insulari ai Grandi: «Stop ai combustibili fossili, è in gioco la nostra vita». L'innalzamento del mare minaccia buona parte delle aree costiere
Inondazione in Bangladesh in una foto di archivio

Inondazione in Bangladesh in una foto di archivio - Ansa/Epa

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«Dobbiamo impedirlo». L’appello dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis) e della sua rappresentante, Diann Black-Lyann, ha il tono di una supplica. L’ultimo rapporto dell’International panel on climate change (Ipcc) conferma le paure più volte espresse dal gruppo che riunisce trentanove isole e arcipelaghi sparsi tra Pacifico, Indiano e Caraibi. Il riscaldamento globale è irreversibile e inevitabile: tra venti o trent’anni, la temperatura crescerà di 1,5 gradi. Se si fermerà qui, però, o continuerà a salire nei decenni successivi, insieme all’aumento del livello del mare, dipende ancora una volta da noi, spiega l’Ipcc. E dalla nostra volontà di eliminare, quanto prima seppure in modo progressivo, i combustibili fossili.

I leader mondiali riuniti a Glasgow a novembre per la Climate change conference dell’Onu – la cosiddetta Cop26 – avranno finalmente il coraggio di farlo? Una risposta negativa equivale a una morte annunciata per decine di mini-nazioni ma pure di “pezzi” considerevoli di Paesi che galleggiano a pelo d’acqua. Anche mantenendo la soglia dei due gradi entro la fine del secolo, il balzo degli Oceani, in base alle previsioni, si profila superiore al mezzo metro. Negli scenari peggiori si arriva al metro e oltre. Addirittura due o cinque metri nel lungo periodo.

Sono sufficienti novanta centimetri per “annegare” più dei due terzi di Kiribati e le isole Marshall. Alle Maldive potrebbe andare anche peggio: oltre l’80 per cento della superficie dei 1.200 isole e atolli si trova molto sotto il metro sul livello del mare, le terre “più basse” del pianeta. Buona parte sarà ingoiata dall’acqua che, anche se le emissioni sparissero immediatamente, crescerà comunque tra i dieci e 25 centimetri entro il 2050. Ben prima, tuttavia, molte isole potrebbero diventare invivibili a causa dell’erosione del suolo, della morte della barriera corallina – la cui esistenza diventerebbe impossibile con un aumento anche di poco superiore a 1,5 gradi – e della perdita di falde acquifere.

Le Isole Salomone hanno già assistito all’annegamento di cinque atolli. L’ultimo, Kale, ha iniziato a ridursi nel 2009: cinque anni dopo, è stata completamente sommersa. Un crudele paradosso per Paesi che contribuiscono per meno dell’1 per cento alle emissioni globali: esattamente lo 0,23 per cento secono le stime piiù accreditate.

La battaglia dei piccoli Stati va poi ben oltre le loro ridotte dimensioni e contenuta quota di residenti. In gioco c’è la sopravvivenza di 600 milioni di persone, quasi il dieci per cento della popolazione mondiale. Tanti vivono, al momento, secondo le rilevazioni delle Nazioni Unite, in aree costiere alte meno di dieci metri rispetto al livello del mare. Oltre un terzo, in base a uno studio satellitare condotto dalla Nasa, risiede in zone a meno di due metri. L’effetto combinato dell’innalzamento delle acque, della loro acidificazione e dell’incremento dei fenomeni meteorologici estremi – ogni mezzo grado in eccesso ne moltiplica frequenza e intensità – potrebbe trasformare 267 milioni di persone in profughi alla fine del secolo.

Numeri drammaticamente in linea con quanto sostenuto tre anni fa da Banca mondiale, secondo cui nel 2050 fino a 143 milioni di donne e uomini del Sud del pianeta dovranno fuggire dalle loro terre ormai devastate dal cambiamento climatico. Ora una ricerca appena pubblicata da Nature conferma implicitamente le previsioni, prevedendo nello stesso anno almeno un 11 per cento in più di persone senza cibo. E questo se si riuscisse a contenere al minimo il riscaldamento. Nell’ipotesi peggiore si arriva al 36 per cento.


Nel 2018, C40 Cities, l’alleanza internazionale fra città per combattere il cambio climatico aveva stimato in 850 milioni le persone che nel 2050 avrebbero abitato in città “sensibili” all’innalzamento oceanico. Lagos, a meno di due metri sul livello del mare, e i suoi 24 milioni di residenti, già iniziano a sprofondare a causa delle inondazioni fuori controllo. Lo stesso sta accadendo a Jakarta. Presto potrebbe toccare a Bangkok, Shangai, Dacca e Hanoi. Luoghi distanti potrebbe pensare un europeo o uno statunitense. Le recenti alluvioni in Germania, tuttavia, ci hanno dimostrato che il problema non è poi tanto lontano da casa.





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