La permanenza in carcere dipende ovviamente dal crimine commesso. C’è chi ha ucciso il marito «perché – racconta – stanca di subirne la violenza» ma c’è anche chi viene giudicata colpevole di reati che in Italia non sarebbero neanche considerati tali. È il caso di chi ha subito uno stupro, di chi si è innamorata dell’uomo sbagliato, di chi ha tentato la fuga da casa e di chi ha rifiutato il matrimonio imposto dalla famiglia. Per tutte loro il sistema giudiziario afghano prevede la reclusione e la riabilitazione. Un obiettivo, quello del reinserimento sociale, che per molte resta un miraggio. Soprattutto per quelle che arrivano dai villaggi più poveri dove il carcere è tutt’ora vissuto come un’onta indelebile. L'ingresso del carcere di Herat
Ad aiutare queste donne spesso sono le Ong e altre associazioni che le accolgono nei loro centri e le aiutano a trovare un impiego grazie anche a quanto imparato in cella. Nel carcere femminile di Herat tutte le detenute hanno infatti l’obbligo di studiare e lavorare. Imparano a leggere e scrivere il dari e il pashto, a parlare inglese, a fare i calcoli e ad usare il computer . E poi ci sono i mestieri, spesso trasmessi da detenute più anziane o da ex detenute che sono riuscite a riabilitarsi, per far sì che queste donne, spesso giovanissime, una volta fuori, possano contribuire al sostentamento dei loro figli. Alcuni degli oggetti confezionati dalle detenute
In tante imparano a cucire , altre realizzano prodotti e manufatti artigianali, alcune seguono lezioni di trucco mentre altre sognano di diventare commercianti e imprenditrici. «Siamo grati all’Italia per il sostegno ricevuto fino ad oggi – è il commento della direttrice del carcere – e speriamo di continuare a riceverne in futuro. Grazie ai militari e al Prt (Provincial Reconstruction Team) del Train Advise Assist Command West, il comando multinazionale a guida italiana attualmente su base brigata bersaglieri ‘Garibaldi’, abbiamo ottenuto mezzi e materiali per rendere questo luogo ancora più funzionale allo scopo. Da circa tre anni poi i militari ospitano, una volta al mese, all’interno del quartier generale di Camp Arena una mostra-mercato con tutti i prodotti realizzati dalle detenute. Il 50% del ricavato della vendita dei prodotti va alle loro famiglie. Una gran bella iniziativa che restituisce la giusta speranza a queste donne».Abitini confezionati dalle detenute
Tra le ultime richieste rivolte ai militari italiani c’è quella di finanziare un servizio di supporto psicologico alle detenute: «L’idea – spiega il tenente Ilaria Mattiacci, gender adviser e vice comandante di compagnia presso il 4° reggimento carri di Persano (Sa) – è quella di realizzare un percorso che possa facilitare il reinserimento sociale di queste donne restituendo loro fiducia e autostima. La condizione femminile ad Herat si sta evolvendo, cresce il numero delle afghane che lottano per il riconoscimento dei propri diritti e di pari passo sta aumentando anche il livello di scolarizzazione soprattutto tra le bambine. Tanto resta ancora da fare, è chiaro, dal canto nostro continueremo a mettere in campo tutte le iniziative possibili contro ogni forma di violenza e a sostegno delle pari opportunità». Un militare italiano con un bimbo afghano