Il presidente Biden e il premier Netanyahu nell'incontro di ottobre a Tel Aviv - Reuters
La parola d’ordine delle cancellerie occidentali a Israele è «de-escalation». O, per parafrasare Joe Biden, non oltrepassare la linea rossa. Un confine faticosamente tracciato dal capo della Casa Bianca come contropartita della «corazzata» costruita intorno all’alleato per proteggerlo dall’attacco iraniano della notte tra sabato e domenica. Non solo coagulando un fronte compatto – costituito da Usa, Gran Bretagna, Francia e Giordania – in modo da intercettato gli oltre trecento droni e missili lanciati da Teheran. Ma, ancora prima, tenendo aperto un canale con quest’ultima, attraverso – secondo quanto afferma il Wall Street journal – gli “amici” del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati. La ricostruzione è stata confermata in modo indiretto –nonostante le vibranti smentite degli interessati, in primis gli Usa – dagli stessi ayatollah che, per bocca del ministro degli Esteri Hossein Amir Abdolahian, hanno affermato di avere avvertito Washington e Stati vicini settantadue ore prima dell’attacco. La strategia è culminata domenica nel “finale di partita” assicurato dalla Repubblica islamica sempre mediante Abdolahian: «La questione è chiusa».
Certo, l’ayatollah Ali Khameni ha provato a tenere alta la tensione – seppure a fini prevalentemente interni – con la provocazione via X: «Gerusalemme sarà dei musulmani». La prova decisiva del “metodo Biden” è, però, la reazione israeliana. Gli Stati Uniti e il mondo attendono con ansia di capire se e come avverrà. Ovvero se Benjamin Natanyahu – al di là delle dichiarazioni ufficiali del gabinetto di guerra: «Risponderemo con tempi e modi di nostra scelta» – starà all’interno della linea tracciata. Il presidente Usa è stato molto chiaro con Tel Aviv. In una telefonata notturna, mentre le scie dei missili illuminavano con i loro bagliori sinistri il cielo di Gerusalemme, Biden ha detto che non avrebbe partecipato a una controffensiva ai danni dell’Iran. Concetto ribadito – seppure con tono edulcorato – dal portavoce per la Politica estera, John Kirby, il quale, dopo sottolineato «il fallimento spettacolare iraniano», ha detto: «Siamo fiduciosi che il governo israeliano sia consapevole dei timori Usa». Un messaggio analogo arriva dall’Unione Europea i cui ministri degli Esteri si riuniranno oggi in videoconferenza. Nonché dal G7 e dal Consiglio di sicurezza, convocati d’urgenza. Uno dopo l’altro, i leader di Londra, Parigi, Germania nonché l’alto rappresentante per la Politica estera Ue, hanno condannato l’attacco, esortando, però, a gran voce Tel Aviv alla moderazione. «Evitiamo il bordo dell’abisso», ha tuonato Josep Borrell con il supporto di Rishi Sunak, Emmauel Macron e Olaf Scholz. Linea condivisa eccezionalmente anche dalla Russia che ha espresso «profonda preoccupazione».
Il rischio dell’effetto domino è reale. A questo, però si somma una crescente pressione interna nei principali Paesi occidentali per frenare Israele. Biden sa che nella gestione del lo scomodo alleato Netanyahu si giocarsi buona parte del credito fondamentale per le imminenti presidenziali. Il capo della Casa Bianca si muove sul filo del rasoio: se svincolarsi da Israele è impensabile, farsi trascinare dai falchi al potere a Tel Aviv in un conflitto regionale sarebbe un suicidio politico. Anche Sunak e Macron camminano in un campo minato. Formalmente devono mostrare fermezza nei confronti di Teheran. D’altra parte, devono fare i conti con opinioni pubbliche sempre più critiche verso la guerra a Gaza. Da qui le dichiarazioni sibilline di ieri: mentre Sunak ha chiamato Netanyahu per indurlo a miti consigli, Macron ha ribadito di avere intercettato gli ordigni iraniani su richiesta giordana e ha allertato di nuovo per la sicurezza delle Olimpiadi, chiedendo una tregua per i Giochi. La Spagna cerca di ritagliarsi un ruolo attraverso la “terza via” proposta dal premier, Pedro Sánchez. Quest’ultimo sostiene il riconoscimento della Palestina come premessa per una soluzione politica della crisi mediorientale. E ha ottenuto, al momento, il sostegno di Irlanda e Norvegia. Non meno in difficoltà appaiono i Paesi del Golfo, stretti tra l’alleanza Usa – che impone di proteggere Israele –, il sentimento filo-palestinese dei rispettivi popoli e la paura di finire loro stessi nel mirino iraniano. Già la Giordania, teatro di ripetute manifestazioni di solidarietà a Gaza, si è trovata, suo malgrado, ad abbattere il 20 per cento dei missili di Teheran passati sul proprio spazio aereo. Arabia Saudita, Emirati e Qatar cercano di mediare senza spingere eccessivamente per non compromettere l’appeasement – recente per Riad e Abu Dhabi – con gli ayatollah. La sopravvivenza di questa cristalleria dipende, però, ora dalle mosse di Netanyahu. Almeno fino a quando il suo governo riuscirà a reggere.