sabato 30 agosto 2014
A casa della sudanese perseguitata perché cristiana. La nuova vita americana in una città in crisi. Il marito: senza lavoro, non so come aiutarla.
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Meriam Ibrahim alza gli occhi dalla bimba al suo seno per vedere chi è entrato. È ancora più bella che in foto e il suo viso affusolato ha perso la magrezza scheletrica che spuntava dai veli durante la prigionia. Il piccolo Martin, di due anni, balza dal divano dove era seduto con la madre e copre al piccolo trotto i pochi metri che lo separano dalla porta d’ingresso. Una visita è una novità degna di nota nel minuscolo appartamento dove passa le giornate in compagnia di mamma e sorellina, con un paio di giocattoli e troppa energia che lo tiene sveglio alla sera. Ma è allegro, e nonostante abbia passato sei mesi isolato in una cella, non ha paura degli estranei.
Il telefono squilla, ignorato. Meriam non risponde mai. Non capisce l’inglese né si esprime facilmente in dirka, la lingua che molti immigrati sud-sudanesi di Manchester, compresa la famiglia di suo marito, parlano fra loro. Si alza, si accovaccia per mettere la piccola Maya su un seggiolino appoggiato a terra e le sue lunghe gambe scompaiono sotto l’ampio vestito a fiori. Poi si avvicina ai fornelli. Meriam è libera. Nessuna serratura, nessuna catena la tiene prigioniera nelle due stanze dove vive dal 31 luglio, quando è arrivata negli Stati Uniti dall’Italia, in fuga dal Sudan dove era stata condannata a morte per la sua fede cristiana. Eppure non esce quasi mai. I suoi nuovi ceppi solo le sue paure, e non sono immaginarie. Essere in strada la confonde. Non c’è molta gente in giro a piedi nel quartiere popolare dove vive. Palazzine, asfalto, strade larghe, nessun bambino. Talmente diverso dalla grande casa nel verde dove è cresciuta con la famiglia materna. Non solo.
Meriam non ha ricevuto da Washington nessun pezzo di carta che l’autorizzi a rimanere permanentemente negli Stati Uniti con il marito, un cittadino americano. La vista di un poliziotto – e ce ne sono parecchi nel quartiere, impegnati a tenere d’occhio vagabondi e tossicodipendenti – la terrorizza. Poi c’è il timore forse meno razionale, ma più grande. Che un estremista islamico la trovi e faccia del male a lei o ai suoi bambini per gli stessi motivi che l’hanno fatta incarcerare dal governo sudanese il febbraio scorso.«Non so come aiutarla – dice Daniel Wani, suo marito – non posso uscire con lei, devo trovare un lavoro e un appartamento più spazioso, perché così non possiamo andare avanti. Per me uscire è complicato». La distrofia muscolare costringe Daniel in una sedia a rotelle e gli ha reso finora impossibile trovare un impiego stabile. Per ora riceve un assegno di disabilità dal governo federale. «Ma non basta», dice, con un filo di voce.Dal cucinino Meriam emerge con tre cosce di gallina lessate e un brodo di pollo. Ne porge una tazza all’ospite, senza dire una parola, poi torna sul divano. Lei e il marito mangiano a turno a un tavolino nel soggiorno che fa anche da camera da letto dei bambini. Daniel imbocca Martin, che è troppo impegnato a sorridere per dedicare attenzione al cibo. «La domenica andiamo a messa – racconta Daniel –. Ma non a Sant’Anna e Sant’Agostino, dove vanno gli altri africani, perché non c’è una rampa per gli handicappati. Andiamo a Saint Joseph, la cattedrale, dove non conosco nessuno». Quando sono arrivati, la parrocchia locale ha mandato loro i pacchi donati dalle famiglie che avevano seguito la loro storia sui giornali. Ci sono state anche feste, cene. «Ma poi ognuno è tornato alla sua vita. Ognuno deve pensare prima di tutto alla sua famiglia», dice Meriam attraverso il marito, seria, ma senza dar segno di rancore o di delusione.
Manchester è stata colpita duramente dalla recessione. Al contrario del resto del New Hampshire, questa ex città industriale ha perso migliaia di posti a tempo pieno e li ha sostituiti con impieghi precari e part-time nei servizi e nella ristorazione. Il Comune ha licenziato un terzo dei poliziotti, dei pompieri e dei lavoratori che rattoppano l’asfalto dopo le gelate invernali. Un bambino su quattro vive in povertà. Centinaia di famiglie hanno perso la casa o l’hanno abbandonata quando non potevano più permettersi luce, gas e manutenzione. E si vede. A pochi isolati dal centro e dalla sua esplosione di colonne bianche, sorgono grandiose ville vittoriane incorniciate da inserti di legno delicati come merletti. Ma ci sono buchi nelle tavole delle verande. Alcune porte ciondolano da un cardine e non poche finestre sono oscurate da un foglio di plastica. Non ci sono campanelli, ma s’intuisce che le otto-dieci stanze all’interno sono state ripartite fra tre o quattro famiglie.
È qui che vivono molti dei poveri, che spesso è sinonimo di immigrati e che a Manchester vuol dire latinos o profughi africani. A partire dagli anni Novanta un programma del Dipartimento di Stato li sistemava qui, dove le aziende assumevano e dove si dava per scontato che avrebbero assorbito l’etica del lavoro e l’orgoglio del New England. È così che Daniel Wani e suo fratello Gabriel sono arrivati nel 1998, in fuga dalla guerra civile. Ma oggi la maggior parte degli immigrati non ha lavoro e il sindaco repubblicano Ted Gatsas dal 2012 ha chiesto al governo federale di non mandarne più. La gente "che è nata qui", ha detto più di una volta, è stufa di dover dividere le sue risorse con chi viene da fuori. Daniel teme che sia questa la fonte di timori più giustificata di sua moglie. Nella bianchissima Manchester non la sua fede, ma il colore della sua pelle potrebbe crearle dei problemi. Approfittando della compagnia, dopo pranzo Meriam decide di portare i bambini a fare una passeggiata. Appena fuori, Martin cerca di trascinare la mamma verso il giardinetto davanti a casa, ma lei se lo tira vicino e fa di no con la testa. Nel parco c’è un gruppo di giovani che fumano, sdraiati in mezzo a scatole di cartone. Altri si passano una bottiglia ridendo a voce troppo alta. In mezzo c’è una pattuglia della polizia con un agente a bordo, portiere e finestrini chiusi.
«È una comunità disorientata – spiega più tardi padre Joseph Gurdak, parroco della chiesa di Sant’Anna e Sant’Agostino, poco distante, dove una domenica al mese si celebra una messa "africana" –. Capisco che non sia facile per una famiglia come quella di Daniel trovare un equilibrio. I bisogni sono tanti e non si riesce a rispondere a tutti. Non mi sorprende che i servizi sociali non gli riescano a trovare un appartamento più grande. La lista è lunga». Prima di partire per il Sudan per soccorrere sua moglie, Daniel, che ha una laurea in chimica e una in legge, faceva traduzioni e compilava pratiche legali per altri immigrati, o dava lezioni d’inglese. Intanto studiava per la carriera diplomatica. Ma i lunghi mesi di assenza gli hanno fatto perdere i clienti e l’esame per il Foreign service si è rivelato una delusione. «Avevo chiesto più tempo, perché posso battere a macchina solo con una mano, ma non me l’hanno concesso e non ho finito di rispondere alle domande», racconta. «Ora devo trovare un altro modo di mantenere la mia famiglia». Meriam, che sta cullando Maya, deve aver capito, perché aggiunge qualcosa. «La vita in America è difficile», traduce il marito.
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