Qualcuno giura di sì. Ma chissà se il messaggio, da un lato all’altro del tavolo formato pista da curling che separava Macron da Putin al Cremlino, sia arrivato veramente chiaro: la Francia (e accodata l’intera Europa) lascia il Mali – al quale la Russia tiene molto – in cambio di “qualcosa di nuovo” dal fronte Orientale. Ormai lo sanno tutti, questo in linguaggio diplomatico si chiama «Big Game». E ci sono decine di altre variabili che devono combaciare affinché la tempesta (quasi) perfetta montata ad arte non solo da Mosca possa placarsi in Ucraina. Ma quello che oggi interessa a pochi è invece il Big Game africano che Macron, a ormai pochi giorni dall’annuncio settimana prossima della sua candidatura all’Eliseo, ha innescato. E non certo da ora. L’annuncio del trasferimento delle truppe francesi ed europee (per la verità poche) dal Mali golpista al Niger per «contrastare l’avanzata del Daesh e di al-Qaeda nel Sahel» fa sorridere non pochi analisti: se è vero che il Mali è il «crocevia dell’Africa», dal Sahara a Città del Capo o dall’Atlantico al Golfo di Aden, e riveste quindi un’importanza strategica, il Niger è invece una miniera inestimabile di uranio. La cui estrazione è gestita e difesa dai francesi. Dopo i fallimenti del passato, Macron ora è riuscito a socializzare le perdite e privatizzare gli utili, coinvolgendo l’Occidente nella lotta al jihadismo. Una verità amara, che come al solito sta nel mezzo. Il Mali, come il Burkina Faso, sono ormai realtà ingestibili. Nei colpi di Stato in entrambi i Paesi, molti hanno visto e vedono la regia russa. A Bamako le truppe “irregolari” di Putin (i «mastini della guerra» della Wagner) sono state accolte come i salvatori della patria. Gli stessi istruttori, sussurrano i maligni, che prima addestravano i jihadisti di Gao, nel nord del Paese. Stesso copione a Ouagadougou in Burkina Faso dove le auto attraversavano la capitale con le bandiere russe sventolate dai tettucci apribili come dopo una vittoria dei Mondiali. È inutile negarlo, in Africa è in atto da anni una nuova Conferenza di Berlino che sta ridisegnando le aree di influenza e gli equilibri. Tutti in chiave sino-russa ormai grandi alleati anche in altre realtà ma antagonisti nella caccia in Africa alle influenze (Mosca) e alle risorse (Pechino). Dopo la fine dell’Ottocento e poi le guerre mondiali vennero le indipendenze africane degli anni Sessanta, le «ribellioni» alle dittature corrotte e ora la penetrazione jihadista, che disegna sulle mappe una mezzaluna che taglia a metà il Continente fino al Corno d’Africa. Ed è proprio su questo terreno che gli analisti militari, partendo da quelli del Pentagono, da tempo vedono del marcio: tecniche militari, armamenti e strategia non si imparano dall’oggi al domani. Inoltre hanno un imprinting che gli esperti sanno riconoscere. Da qui i sospetti fondati di utilizzo (forse moderatamente inconsapevole) dei gruppi terroristici per fini diversi da quelli per i quali lotterebbero, cioè il perseguimento del jihad. Per questo, e per tornare al Mali e al Sahel, resta solo un’altra constatazione amara da fare. Da quelle terre partono ancora le carovane sgangherate che salgono verso il nord del Sahara: persone, esseri umani trattati come merce dai trafficanti, che muoiono di sete o spesso finiscono nelle prigioni libiche. Fermare i jidahasti e questo traffico disumano era il senso, un tempo, anche della missione europea nel Sahel.
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