Ha chiesto armi, non uomini. Il primo ministro libico Fayez al-Sarraj temporeggia. Rispedisce al mittente le proposte di coalizione internazionale anti-Daesh. Vuole che se la sbrighino i libici. Ma la verità è che in Libia tutti stanno già muovendo le loro pedine. L’Italia ha agenti dell’Aise e incursori del Col Moschin fra Bengasi e (molto verosimilmente) Misurata. In pratica, fra l’incudine e il martello. Sta profondendosi in uno sforzo di mediazione impari. Per ora puntella il campo e gli interessi nazionali con forze speciali e agenti segreti. Ostenta una prudenza massima. Ma non appena al Sarraj si insedierà a Tripoli città, bisognerà schierare forze convenzionali e reparti specialistici. Come mini- mo 400 uomini, non solo nostri, per proteggere la futura base tripolina delle Nazioni Unite. Bisognerà blindarne perimetro e dintorni, assicurare la logistica e fare scorte armate. Ovvio, anche al generale degli alpini Paolo Serra, mentore di Martin Kobler sul piano militare. Non tira aria invece di Liam, la vecchia missione di supporto e di addestramento con migliaia di uomini. Sarraj non l’ha chiesta. Almeno per ora. Gioca sull’alleanza strategica con le milizie di Misurata, le più forti dell’intricato mosaico libico. La partita potrebbe però sfuggirgli di mano. Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, è sul piede di guerra. Sarebbe pronto a liberare Sirte e il crescente petrolifero dal giogo di Daesh, ghermendo il 70% della produzione libica di petrolio. Un casus belli per Tripoli e Sarraj, tanto che il consiglio militare della città di Misurata, vassallo (o controllore?) del premier, ha già spostato molte pedine. Primo: ha inviato dodici battaglioni di miliziani all’avamposto di Sadada, sul limes del mini-califfato di Daesh. Secondo: sta imbastendo una linea difensiva su quattro katibe nella regione desertica di Giufra, più a sud di Sirte. Da lì bloccherebbe l’avanzata di Haftar verso Misurata, se mai il califfato crollasse. Tutti i grandi al tavolo di Vienna studiano mosse e contromosse. Manovrano dietro le quinte. I francesi hanno un centro di coordinamento filo-Haftar nella base aerea di Benina, l’aeroporto internazionale di Bengasi. Siedono fianco a fianco al colonnello Salim Al-Abadi. Lo supportano, anche in prima linea. Ci sono operatori “clandestini” del braccio armato dell’Aise d’oltralpe, trasferiti in teatro su velivoli civili per non dare troppo nell’occhio. Gli ufficiali del Pentagono sono stati molto più franchi. Questi giorni hanno confermato al
Washington Post di avere due team di forze speciali fra Bengasi e Misurata, dove si gioca il traballante destino libico. Gli americani affilano il gladio. Hanno pronti a Rota e Sigonella 2.300 marines, per qualsiasi evenienza. Usano Pantelleria molto disinvoltamente, per voli che vorrebbero segreti. Gli aerei appartengono all’aviazione “non standard” delle forze speciali e della Cia. Dei loro passaggi c’è più di una traccia. Lecito dubitare che gli americani in Libia siano solo 25. Come escludere un ruolo dei sottomarini, che fanno intelligence e possono infiltrare commando assai più discretamente? Nelle due città chiave non potevano certo mancare i britannici, con i loro incursori dell’Sas e dell’Sbs. Londra avrebbe un accordo diretto con le brigate di Misurata per usare la zona dell’accademia militare, nel sud-ovest della città. Intanto ha già ordito contro Daesh la prima grande operazione di guerra psicologica dell’ennesima campagna libica, mettendo ko per 40 minuti tutte le comunicazioni dei tagliagole. Miracoli dell’era hertziana.
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