Suor Rita Giaretta mentre accompagna all'altare Joy lo scorso 5 ottobre, a Roma - .
Non mancano mai i fiori, sul balcone al sesto piano di Casa Magnificat. Suor Rita Giaretta è un fiume in piena di gioia e di parole, e quella gioia – nell’appartamento sulla Tuscolana in cui vive con suor Assunta e le ragazze che di volta in volta vi trovano riparo da un mondo che le ha ferite – si deve vedere dalle finestre, deve avvolgere le stanze: «Tutto comincia e ricomincia con la bellezza d’altronde. I fiori rendono felici le donne, sono colore da guardare, sono vita che germoglia. E Dio non vuole sepolcri, vuole vita, vuole il bello della vita».
La ricetta più semplice del mondo è quella con cui l’orsolina di origini vicentine da trent’anni salva le donne dalla tratta. Prima a Casa Rut, la sua creatura nata a Caserta e che ha accolto e rimesso al mondo oltre 600 ragazze che avevano perso tutto nell’abisso dello sfruttamento e della prostituzione; oggi a Roma, a due passi della parrocchia di San Gabriele dell’Addolorata, che al sogno di suor Rita ha messo a disposizione un piccolo spazio in comodato d’uso dove si vendono i prodotti della cooperativa nata sulle orme dell’esperienza campana. Quest’ultima si chiama New Hope e gestisce una sartoria in cui proprio le donne vittime di tratta lavorano: «È un luogo di liberazione e di libertà. Perché è il lavoro a liberarle, la consapevolezza acquisita giorno dopo giorno di poter tessere con le proprie mani anche la propria storia». Non a caso la scelta è caduta proprio sul mestiere sartoriale e sulla lavorazione dei tessuti: le trame dei fili colorati ricompongono l’informe che sta alla loro origine, «le ferite si ricuciono – spiega suor Rita –, la sofferenza diventa speranza: “io ce la posso fare. Con questa stoffa, per cominciare. E poi con il futuro”».
Non sono certo le vendite, nella periferia romana, a dare un senso alla missione: piuttosto è la possibilità di incontrare le persone, di raccontare loro storie: «E noi parliamo di tratta, cioè di ciò di cui non si parla mai. Si parte da un segno, la sciarpa o la gonna che vendiamo, e comincia una narrazione: il 25 novembre, per esempio, nella Giornata contro la violenza sulle donne, noi parliamo di cosa significa violenza, di come si può rinascere; oppure l’8 marzo, in quella contro lo sfruttamento, eccoci a raccontare dello sfruttamento, delle nostre liberazioni». E le storie, sulla Tuscolana, sono quasi sempre a lieto fine. C’è quella commovente di Joy, che è stata raccontata in un libro (Io sono Joy, San Paolo) la cui prefazione è firmata da papa Francesco: scampata miracolosamente a un naufragio dopo l’odissea dalla Nigeria alla Libia, sbarcata in Italia con la promessa del lavoro, obbligata a prostituirsi sulle strade di Castel Volturno col ricatto del voodoo e di un debito di 35mila euro. «È arrivata a Casa Rut distrutta, è stata con me otto anni – racconta suor Rita –. Oggi ne ha 31. E due mesi fa ho avuto la gioia immensa di accompagnarla all’altare». «Sei la mia mamma d’altronde» le ha detto Joy una sera tenendo per mano il suo Andrea, conosciuto a Roma dopo aver terminato gli studi e dopo aver trovato un lavoro a tempo indeterminato: la parrocchia ha fatto largo agli invitati, i tavoli del catering sono stati allestiti negli spazi della vecchia canonica, gli sposi si sono cambiati alla fine della cerimonia per indossare i vestiti africani, Joy ha cantato nel suo splendido abito bianco, coi fiori tra le treccioline, la voce rotta dall’emozione. «E io non sono mai stata più felice nella mia vita» dice suor Rita, spiegando come si possa (si debba) diventare tutti «punti di partenza» da cui le persone che amiamo possano spiccare il loro volo.
I festeggiamenti per i vent'anni della cooperativa New Hope - .
È la ragione per cui l’accoglienza, secondo la consacrata, dovrebbe essere costruita con la logica delle “case” e non dei centri di accoglienza: «Non sono i progetti che servono a chi è stato stritolato dallo sfruttamento, ma la cura. Occorre camminare insieme alle vittime, costruire attorno a loro una rete in cui ciascuno dei protagonisti si prende a cuore l’altro, fare famiglia. Qui a Casa Magnificat possono fermarsi due, massimo tre ragazze alla volta. Arrivano dal Congo, dall’Iran, dalla Romania: una volta abbiamo avuto una mamma coi suoi due gemelli». Stanze ampie, in cui l’ospite può trovare la sua intimità e il silenzio di cui c’è bisogno «quando le ferite tornano a sanguinare». Supporto nei percorsi di studio e tempo per portarli a termine, «perché la scuola è tutto, e alla base di ogni percorso di ricostruzione c’è la formazione, non solo i corsi di italiano o un lavoro accettato in fretta e furia. Spesso le ragazze mi dicono che hanno ricevuto offerte come colf e badanti: “no” rispondo loro, “prima la scuola, prima lo studio, poi magari sceglierai di fare la colf o la badante, ma sceglilo in libertà”».
A suor Rita non basta ancora: sotto il condominio, vicino alla parrocchia, si affacciano su una piazzetta gli spazi di alcuni negozi in disuso e chissà che ci si possa allargare, che la libertà contagi il territorio innescando altre reti, «reti di donne, reti generative». Casa Magnificat, d’altronde, è stata donata alle orsoline proprio da una donna la cui figlia, lì, s’era uccisa: «E che miracolo è oggi vedere quanta vita stia dando lo stesso luogo che prima aveva conosciuto solo morte e dolore». È la metafora di quel che accade alle ragazze che lo abitano.