Omar Mateen, cittadino americano, mentalmente instabile, incline alla violenza, lacerato, secondo l’ex moglie, fra rigore islamico e una probabile inclinazione omosessuale. Larossi Abballa, cittadino francese, disoccupato, solitario e frustrato, in cerca di fama e di approvazione sociale. Sia l’autore della strage di Orlando che l’assassino della coppia di poliziotti di Parigi hanno ucciso in nome del jihad e hanno visto le loro azioni rivendicate dal Daesh, al quale avevano giurato fedeltà. Ma per entrambi i legami concreti con il sedicente califfato sono tenui e indiretti. Tecnicamente, non sono cellule dormienti addestrate dai miliziani fedeli a Abu Bakr al-Baghdadi. Che cosa sono, allora questi “lupi solitari”? Sono terroristi a tutti gli effetti? La domanda non è oziosa, perché dalla risposta dipende la strategia dei corpi di sicurezza occidentali nel cercare di prevenire nuove stragi. Lo Fbi in queste ore sta setacciando la vita di Mateen per capire se la sua radicalizzazione islamica sia un fattore decisivo nella decisione di sterminate decine di persone, o se le cause siano piuttosto psicologiche e sociali, abbinate alla facilità nel procurarsi armi negli Stati Uniti. Nel primo caso, una mossa preventiva sarebbe quella di mettere sotto stretta sorveglianza tutti i musulmani sospetti di aver completato un cammino di radicalizzazione. Un approccio difficile, sia per le risorse che impegna sia perché, secondo alcuni analisti, potrebbe rivelarsi inefficace. «La probabilità che un sospetto compia il passo fra l’avere punti di vista estremi e l’agire con violenza è estremamente difficile da identificare dall’esterno», dice Daniel Benjamin, ex coordinatore antiterrorismo del Dipartimento di Stato Usa. Lo sforzo è ancora più complicato negli Stati Uniti, dove la libertà di parola e la possibilità di acquistare pistole sono considerati diritti fondamentali. Il rispetto delle libertà individuali, che accomuna America e Francia, rende infatti difficile, anche quando un potenziale sospetto terrorista viene individuato dalle autorità, come è successo sia per Mateen che per Abballa, raccogliere abbastanza prove per mantenere attiva la sorveglianza o far scattare un arresto. «Le forze dell’ordine seguono centinaia di persone e altre migliaia appaiono di continuo sui nostri radar – spiega Shawn Henry, ex dirigente Fbi –. La complessità di navigare fra le nostre leggi e Costituzione, cercando di mantenere la sicurezza, è una sfida davvero difficile». Ma alcuni analisti pensano che la chiave per interpretare i dati a disposizione delle forze di sicurezza debba essere una sola: l’espressione di simpatia per gruppi terroristici. «Questi non sono lupi solitari, sono soldati del Daesh – dice Claire Lopez, vicepresidente del Center for Security Policy, un think tank di Washington – non prendono iniziative individuali, ma rispondono alla chiamata dei leader del gruppo che hanno invitato tutti i musulmani ad attaccare gli americani, in particolare i civili, durante il Ramadan». Questo punto di vista non è generalmente condiviso all’interno dell’Amministrazione Obama, che non considera il Daesh come una minaccia diretta per gli Stati Uniti rispetto ad altri gruppi come al-Qaeda, a causa della tendenza del gruppo a lottare principalmente per l’espansione del califfato in Medio Oriente. In realtà, stando a Charlie Winter, che studia i movimenti jihadisti, il Daesh ormai deve essere visto come un’organizzazione terroristica globale che registra enormi successi proprio nell’ispirare attacchi. «In questo aspetto è più potente di quello che pensiamo», dice. Se gli Stati Uniti e la Francia possono dunque fare progressi nel contenere l’espansione del Daesh sul terreno, di fatto sono a corto di armi nell’impedire alla loro ideologia di raggiungere giovani musulmani in America e in Europa, socialmente alienati, o mentalmente vulnerabili. Un problema che verrà ulteriormente complicato dal rientro in patria di centinaia di combattenti stranieri da Siria e Iraq, pronti a portare il jihad nel cuore dell’Occidente.