Un ciclista a Buenos Aires: dietro di lui una scritta contro il Fondo Monetario Internazionale (Ansa)
La maratona di riunioni va avanti da quasi una settimana. Con un obiettivo urgente: evitare la “tempesta perfetta”, ovvero una bancarotta in stile 2001. Per questo, il ministro dell’Economia argentino, Nicolás Dujovne, è volato a Washington a negoziare con il Fondo monetario internazionale (Fmi). Secondo i media, Buenos Aires punta a un anticipo di almeno 15 miliardi di dollari, che si aggiungerebbero ai 15 miliardi già erogati dall’organismo. Con l’accordo di giugno, quest’ultimo ha concesso all’Argentina un credito totale da 50 miliardi. Fondi della delegazione governativa, però, sostengono che tale cifra potrebbe essere aumentata: in cambio di tasse sull’export e tagli alla spesa, già previsti nel “piano Macri”. Da quattro giorni, il peso è stabile. Ma i mercati sono nervosi. E i cittadini pure. Per calmarli, il governo ha deciso di scommettere tutto sul Fmi.
«Trasmettiamo da una casa d’Argentina illuminata nella notte che fa la distanza atlantica la memoria più vicina e nessuna fotografia ci basterà...». Camminiamo per le strade di Buenos Aires, cuffiette alle orecchie, con la colonna sonora degli Italiani di Argentina di Ivano Fossati. Nostalgica e struggente, come questo tempo sospeso, tra la lenta costruzione e quel senso da Triste solitario y final di Osvaldo Soriano che in tempi non sospetti annotava: «Mio padre diceva che per questo Paese non c’è rimedio, che è destinato a finire e che ogni tanto bisogna andarlo a guardare per l’ultima volta».
Nel quartiere Palermo, il vento spazza via le ultime foglie morte di un inverno che sta finendo, ma il cuore dei porteños (abitanti di Buenos Aires) resta congelato. Fa freddo dentro, per la paura di un crac finanziario imminente. L’ennesimo, forse inevitabile. «Perché? Perché abbiamo la classe politica più corrotta del mondo», dice secco e furioso Alfonso, giovane biologo ricercatore all’Università Cattolica, classe 1976. Un figlio delle «notte delle matite spuntate», Alfonso come ogni giovedì non manca mai all’appuntamento con le madri di Plaza de Mayo per dare il suo appoggio alla «resistenza della memoria». È un dovere ricordare quelle migliaia (30mila o più) di desaparecidos cancellati dalla dittatura dei «macellai, i militari di Videla».
«Ma i veri desaparecidos stiamo diventando noi, la classe media. Ci hanno spazzato una sfilza di governi corrotti », mastica amaro Daniel, ingegnere in una multinazionale che ha sede nella City di Baires, il Microcentro. Ufficio all’ultimo piano dal quale domina «tutte le piramidi di acciaio e cristallo» della capitale del terzo millennio, ma anche la vergogna di “Villa 31”, una delle almeno venticinque “villas miserias” (baraccopoli) che también son America, come scriveva il romanziere Bernardo Verbitski. «Nell’ultimo anno, le case-topaie di “Villa 31” sono aumentate, è cresciuta come un fungo mostruoso. Laggiù ci vivranno almeno 50mila disgraziati », denuncia Daniel. Una piaga, una delle tante di questo Continente latinoamericano dalle vene sempre più aperte. Gironi della povertà dove vivono, anzi «sopravvivono» i 300mila “villeros”. Gli ultimi della terra che si aggrappano alla fede e al Papa porteño, perché per loro un lavoro non c’è, la speranza scarseggia e il futuro è un volto triste su un mural di pietà. «Non sono, nonostante siano», recita la poesia dell’uruguayano Eduardo Galeano. Sono gli emarginati di questa megalopoli di 14 milioni di abitanti che per la maggior parte invece vivono, producono e viaggiano «con la mentalità dell’italiano che alla sera nel suo appartamento si affaccia alla finestra e crede di vivere a Madrid o Parigi», dice ironica Lisa, romana trasferita per lavoro a Buenos Aires.
Quelli che si affacciano dai grattacieli e i residence a cinque stelle di Puerto Madero possono anche immaginare di vivere a Londra e che in fondo – a parte il classico “ponte global” di Calatrava – il quartiere del lungofiume di Rio La Plata è lo stesso che costeggia il Tamigi. Illusioni che scorrono lente, come il traffico sulle larghe strade di Baires, lastricate di contraddizioni oceaniche. Miseria e nobiltà di una capitale accesa 24 ore al giorno. Locali alla moda, ristoranti pieni – da Palermo alla Recoleta, fino a San Telmo – di gioventù non ancora bruciata ma che proviene da famiglie già scottate dalle ultime crisi economiche del decennio scorso. «Qui la mattina appena svegli si fanno due cose: controllare la quotazione del dollaro e le strade che sono state chiuse per via delle manifestazioni», racconta Brenda, argentina di San Isidro che fa la spola tra Milano e Buenos Aires.
Sit-in quotidiani per protestare contro le scelte scellerate della Casa Rosada che aggiorna: l’inflazione entro la fine del 2018 arriverà al 42 per cento. Il peso è tornato «moneta di piuma », si è svalutato del 16 per cento in un solo giorno – il 30 agosto, il giovedì nero – e da gennaio ha dimezzato il suo valore. Con un terzo della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà siamo ormai alla questua. Questa settimana il ministro dell’Economia, Nicolás Dujovne, è volato a Washington per chiedere al Fondo monetario internazionale (Fmi) di versare al più presto i 35 miliardi di dollari mancanti, del credito di 50 miliardi accordato a giugno. Nel frattempo code agli sportelli delle banche.
«La gente ha paura, nel 2001 la mia famiglia dalla sera alla mattina si è ritrovata con il conto corrente svuotato. Ci sono voluti cinque anni e una pletora di avvocati per riuscire a recuperare neppure la metà dei risparmi di un vita», continua Brenda che trattiene a fatica le lacrime che poi alla sera, sotto i riflettori del Teatro Señor Tango scendono copiose come le cascate dell’Iguazù. Tango e voglia di libertà. Si commuovono anche i giovani d’Argentina ascoltando Por una cabeza del divino Gardel, anche se la canta il guitto Fernando Soler (un mix di Buscaglione e Califano in versione porteña), piangono al Cementerio de la Recoleta davanti alla tomba di Evita e soprattutto quando ascoltano Don’t cry for me, Argentina. La canzone che ricorda l’eroina Evita, diventata “inno del pueblo”.
«La cantiamo tutti e ci piace, anche se non siamo peronisti», ci tiene a sottolineare Alfredo, cameriere dello storico Cafè Tortoni: su questi tavoli si è seduta tutta l’intelighentia mondiale del ’900 e un posto era sempre riservato per il grande visionario della letteratura, Jorge Luis Borges. Che il riscatto è possibile solo attraverso la cultura Buenos Aires l’ha capito in anticipo sui tempi e lo conferma con il numero di sale dove si proiettano film indipendenti e con i teatri off sparsi in ogni barrio. E poi il Teatro Colón, il tempio della lirica appena riportato al suo antico splendore. «Baires è la città che in rapporto agli abitanti vanta il maggior numero di librerie al mondo », dice orgoglioso Alfonso che mi invita a visitare la monumentale El Ateneo Grand Splendid.
Un ex teatro diventato libreria, dove nei palchetti trovi persone di ogni età concentrate nella lettura, in religioso silenzio. Quel silenzio spezzato dal motore di un aereo che mi riporta a casa. Viaggio con Delia, ebrea di origine polacca, ma nata e cresciuta nella centralissima San Nicolás. «Sono una pensionata che sta in piedi con la minima. Mio marito è morto a marzo e finché c’era lui e la sua pensione potevamo vivere, ora non più. Per questo motivo vado a Tel Aviv da mio figlio. Ho 85 anni, credo che resterò lì fino alla fine...». Un saluto triste, il nostro, a Buenos Aires, che il visionario Borges aveva già scritto: «Ci separammo Delia a uno degli angoli di plaza Once. Dal marciapiede di fronte tornai a guardare: lei si era voltata e mi stava salutando con la mano».