Padre Luigi Maccalli (Fotogramma)
“Ciao padre Gigi, sono dieci mesi che ti aspettiamo, fiduciosi nella preghiera per la tua liberazione e di quella di altri ostaggi di cui non conosciamo il nome, sapendo che i tuoi rapitori sono pure loro tenuti in ostaggio dalla violenza organizzata e programmata per incutere terrore e farci credere che c’è un dio che li appoggia e che darà loro la ricompensa delle loro azioni”.
Inizia così la lettera che padre Vito Girotto, della Società per le Missioni Africane, ha scritto al confratello padre Luigi Maccalli, rapito dalla missione di Bomoanga lo scorso 17 settembre 2018.
“Penso che tu, caro Gigi, puoi parlare con questi tuoi amici - nemici poiché conosci alcune lingue dell’amata Africa e puoi forse farli ragionare semplicemente cercando il momento favorevole e lo spunto da avvenimenti che vivi insieme a loro. Qualcuno dei tuoi rapitori ricorderà il motivo del tuo rapimento e dirà la ragione di quel gesto che ha cambiato la tua vita ed anche la loro vita perché non si può mantenere in prigione una persona innocente senza avere nel cuore una serie di domande che turbano se non c’è una risposta chiara. Ti diranno che eri un punto di riferimento a Bomoanga, e tu nella tua umiltà neppure l’immaginavi ma continuavi ad occuparti di tanti bambini ammalati perché malnutriti e di quegli altri che non avevano una scuola in cui aprire la loro mente, e tu con l’aiuto di amici hai potuto offrire loro delle aule con un tetto sicuro, dove si poteva leggere e scrivere seduti su dei veri banchi lasciando a casa i bidoni vuoti di prima.”
“Uomo di parte? Tu, Gigi? Non è vero”, continua padre Girotto rivolgendosi all’amico missionario. “Non eri unicamente dalla parte dei gurmancé ma con tutti, anche con gli amici peulh che bussavano come tanti alla porta aperta della tua casa a qualsiasi ora. Tu davi a tutti quello che potevi con tanta generosità e disponibilità verso i più poveri presenti a Bomoanga e nei villaggi che visitavi regolarmente almeno una volta al mese. Ogni tuo viaggio a Niamey con la Toyota a nove posti, sempre regolarmente tutti occupati da mamme e bambini che accompagnavi per una visita all’ospedale della capitale. Tu speravi che almeno là potessero essere ben curati, dopo essere passati al dispensario di N’Gula o di Kiki, dove non c’erano gli strumenti e medicinali per le loro cure. Quel viaggio era un’avventura, per poter prendere appuntamenti con i medici, e trovare persone che rimanessero accanto ai tuoi ammalati. Tra loro c’erano cristiani e musulmani, gurmancè e peulh, haussa e zerma, ed eri per loro il padre che pensa a tutti e cerca una soluzione per tutti.”
“Vero missionario creatore di comunità aperte alla Parola di Dio, che dà speranza di vita a tutti. Credo che stai pensando a quelle comunità che sono nate con il pellegrinaggio per l’annuncio, che organizzavi ad ogni ottobre missionario, e che ora non possono più continuare i corsi di alfabetizzazione, ma che continuano a pregare con l’aiuto di tanti animatori della liturgia e catechisti, che tu conosci per averli preparati con i corsi di formazione. Anch’essi si ricordano di te ogni giorno, al mattino e alla sera, con le preghiere che tu stesso avevi preparato in un libretto ben fatto nella lingua gurmancè. Ti attendono libero, per la celebrazione della Messa che è sempre stata per te occasione di incontro e di riflessione, con soluzioni che ti vedevano protagonista nella ricerca dell’acqua potabile, e nella proposta di poter offrire anche un’altra acqua che si attinge con la fede al pozzo di Gesù. Quel Gesù che ora parla loro con il tuo silenzio e li disseta con la parola e la testimonianza della tua vita.”
“Sappiamo, caro Gigi, che stai celebrando una lunga Messa, che non ti stanchi di offrire con il tuo amore a Colui che ti ha chiamato al sacerdozio, e che ti invita ed essere fermo nella prova, con una croce che a noi che ti seguiamo da lontano sembra troppo pesante. Sei bloccato nel corpo, ma non nello spirito, e certamente questa situazione di impotenza fisica ha stravolto i tuoi progetti di missione. Ma non pensare che la tua vita di ostaggio non abbia valore: lo sai bene che per Gesù l’esperienza della debolezza dell’essere inchiodato sulla croce donando tutta la sua vita, fu l’attività più efficace per la sua missione di Salvatore. Pensando a tutti questi lunghi mesi del tuo rapimento ci immaginiamo di vivere in un’agonia senza senso. Ma non è vero, perché la tua testimonianza unisce tante persone che neppure sapevano dove trovare sulla carta geografica quel grande paese che tu ami, il Niger, e che ora pregano e sperano per la tua liberazione.”
“Con te abbiamo scoperto che ci sono in Africa tanti ostaggi anonimi: uomini, donne e bambini, rapiti e schiavizzati che forse non ritorneranno mai in libertà” prosegue p. Vito. “Altri, e sono tantissimi, sono tenuti in ostaggio dalla povertà, o da scelte politiche contrarie alle loro idee, persone che cercano di fuggire per vivere in libertà. Chi dovrebbe aiutarli a ritrovarla, questa libertà, contribuisce invece a produrre una prigionia ancora più atroce. Io pure, come te, ho lasciato la mia amata missione di Makalondi in quella notte del 17 settembre 2018, e con grande sofferenza sono stato obbligato a rifugiarmi a Niamey, tenuto in ostaggio dall’insicurezza e dalla paura di attacchi da cui nessuno poteva difendermi, come è successo a te. La missione sta cambiando, ma chi è protagonista? È sempre e solo Colui che ci ha inviato. Caro Gigi, Untaani (Dio unisce), restiamo uniti in quella fede che ora è provata, ma che ci aiuta ad avvicinarci alla situazione della popolazione, tenuta in ostaggio dalla grande povertà e da una frontiera che sembra escluderla dal Niger dove vive da secoli. ‘Dio è grande!’, come dicono tanti qui in Niger, e a lui affidiamo te e il popolo di Bomoanga, di Makalondi e di tutto il Sahel. (Agenzia Fides)