Piazza Tahrir al Cairo era diventata il luogo simbolo della rivoluzione - Ansa
Il 17 dicembre del 2010, dalla cittadina di Sidi Bouzid, nel ventre agricolo e affamato di Tunisia, prendeva il via una stagione di rivolte e rivendicazioni popolari inedita per il mondo arabo. Dopo il terrificante gesto di protesta dell’ambulante Mohamed Bouazizi, datosi fuoco per la disperazione di vedere sequestrato dalla polizia il proprio banco, niente sarebbe più stato uguale a prima, nel suo Paese. E, adesso lo sappiamo, neanche in Egitto e Libia, Siria e Yemen. Non c’è teatro nordafricano né mediorientale che non sia stato spazzato dal vento delle primavere arabe, chi più chi meno. Dieci anni dopo quelle piazze piene – di braccia in aria, di gole spalancate a chiedere libertà, di sit-in sgombrati da manganelli e gas lacrimogeni – l’area geopolitica che usiamo indicare con l’acronimo Mena (in inglese, North Africa and Middle East, ndr) non gode di buona salute. In Nordafrica e Medio Oriente non ci sono, oggi più di ieri, giustizia sociale, lavoro, libertà di espressione, pluralismo politico, rispetto per le minoranze, sviluppo economico diffuso.
Va detto con lucidità, sperando che guardare in faccia il male aiuti ad affrontarlo con efficacia nel prossimo decennio. Si regge a fatica sulle stampelle l’esperimento democratico tunisino, avviato mentre il clan del presidente Zine el-Abidine Ben Ali fuggiva in Arabia Saudita, il 14 gennaio del 2011. Se la piccola Repubblica non è piombata nel baratro di una guerra fratricida è solo grazie alla sua società civile, sfibrata dalla crisi economica eppure sempre assetata di democrazia. Negli anni, i tunisini hanno sperimentato tutto: l’ascesa fulminea di un partito islamista (Ennahda, la Rinascita); il suo tentativo di dirottare i lavori dell’Assemblea costituente in senso confessionale; il ritorno dell’attivismo laico in strada, per tutelare il progetto pluralista; una pragmatica soluzione di compromesso fra modernisti e islamisti al governo del Paese; il radicalismo islamico insinuatosi nelle pieghe della frustrazione sociale; populismo e conservatorismo, facce della medesima medaglia, trionfanti alle urne del 2019. Poi la pandemia di coronavirus, le cui conseguenze sulla debole ripresa sono ancora tutte da quantificare.
Versa in condizioni economiche migliori l’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi, competitor diretto del turco Recep Tayyep Erdogan nel Mediterraneo e così simile a lui nel piegare l’impianto costituzionale, pezzo dopo pezzo, verso un unico obiettivo: il controllo totale della vita politica e finanziaria del Paese. Dieci anni dopo gli slogan anti-Mubarak gridati al mondo, la rabbia sociale deflagrata in 18 giorni di manifestazioni, l’impianto istituzionale è di nuovo piramidale. D’altronde, l’esperimento democratico è durato appena un anno, in Egitto: il tempo di mettere alla prova una maggioranza e un presidente islamisti (Mohammed Morsi, entrato in carica nel giugno del 2012) e l’ebbrezza era già svanita. La Fratellanza musulmana, che si era preparata alla guida del Paese per 60 anni, dimostrava incompetenza e malafede – in quale proporzione è opinabile – creando le condizioni perché il direttorio militare riprendesse il timone di una nazione spaventata. E toccava al generale al-Sisi fare ciò che l’élite egiziana e le cancellerie occidentali auspicavano, cinicamente: schiacciare i propositi islamisti, ricacciandoli nelle patrie galere come e più di prima; zittire l’attivismo giovane e cosmopolita, incontrollabile; ricondurre l’asse delle alleanze internazionali al solito corso. Niente più flirt con Qatar, Iran, Turchia, Hamas palestinese, Hezbollah libanesi. La bussola geopolitica di nuovo puntata sull’Arabia Saudita.
Il prezzo di un Egitto politicamente stabile e incline a spregiudicate partnership commerciali con l’Occidente è un sipario nero calato sui diritti umani: si stima che, nelle carceri egiziane, ci siano oggi tra i 60 e i 100mila prigionieri politici. Erano 40mila nell’epoca di Mubarak. Il prezzo è anche il silenzio della stampa all’approssimarsi del decimo anniversario della rivoluzione, oggi ridotta a una pagina strappata nella Storia egiziana.
Intanto, quella della guerra civile libica è ancora una storia senza la parola fine: travolta dalle proteste nel febbraio del 2011, la Libia che fu Jamahiriya sotto Muammar Gheddafi non ha ancora trovato né pace né democrazia. Innumerevoli milizie avversarie vi spadroneggiano. Un lungo inverno vi regna perché è diventata il ring dei pesi massimi stranieri. Così come Siria e Yemen, le cui rivoluzioni non si sono mai compiute.