itratti di persone uccise, scomparse o rapite durante l’attacco del 7 ottobre 2023 sulle poltrone dell’Auditorium Smolarz dell’Università di Tel Aviv - ANSA
«Missione compiuta, già. Peccato che non sia stata una missione piacevole », sospira Orli Topel. È il tramonto del suo dodicesimo giorno di “lavoro forzato volontario”. Una contraddizione di termini. Eppure è proprio così. Dal 7 ottobre, questa informatica dal fisico asciutto e i modi sbrigativi e altri duemila “colleghi”- sotto la guida dell’esperta di high-tech Karim Nahon - hanno chiesto e ottenuto dal Comune uno spazio nel polo fieristico situato nella periferia nord di Tel Aviv. E là hanno messo a disposizione gratuitamente le loro conoscenze per identificare le migliaia di dispersi del massacrato perpetrato da Hamas nel Sud dello Stato ebraico. Hanno dovuto, però, procedere a ciclo continuo: tutti i giorni dalle 8 alle 22, senza pausa pranzo. «Nessuno ce l’ha imposto. Siamo tutti volontari. Sapevamo, però, di dover fare in fretta per non prolungare l’agonia delle famiglie più dello stretto necessario». E ci sono riusciti. Grazie al lavoro di questa task force spontanea di cittadini “qualificati”, le autorità israeliane hanno compilato le liste con i nomi degli oltre 1.400 feriti e tremila feriti e, soprattutto, l’elenco dei 203 rapiti, tra cui 30 bambini e venti anziani. «Manca ancora da definire l’identità di qualche decina di persone, forse meno. Il grosso, però, è fatto.
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Alcuni di noi quelli indispensabili - proseguiranno da casa», sottolinea Orly, una delle prime a rispondere all’appello della professoressa Nahon, veterana dell’organizzazione Brothers and sisters in arms, protagonista dei nove mesi di manifestazioni contro la riforma della giustizia proposta dal governo di Benjamin Netanyahu. Il giorno stesso dell’eccidio, però, il movimento di protesta si è trasformata in un’associazione di solidarietà per le vittime, sopravvissuti ed evacuati per i quali raccoglie cibo, medicine, prodotti igienici e soldi. Karim Nahon ha pensato di essere d’aiuto in un altro modo. Grazie alla lunga esperienza all’università Reichman di Herziliya, l’accademica ha reclutato in poche ore un pool di specialisti in nuove tecnologie.
A questi si sono uniti appassionati e “smanettoni”, fino a raggiungere i 2mila volontari. Nel centro auto- costituito se ne contano 450, gli altri sono collegati da remoto: con i continui allarmi anti-missile a scandire il tempo, le autorità chiedono di evitare grandi concentrazioni di persone. Da ieri sera, in ogni caso, il gruppo si è sciolto e il capannone ha chiuso i battenti. «Ormai abbiamo finito ma dobbiamo smontare tutto», racconta, mentre si prepara allo “sgombero”. La fiera è una selva di identici rettangoli di cemento grigio adagiati su un piazzale vastissimo. Per trovare il “centro” occorre percorrerlo tutto e infilarsi dietro l’ultima struttura. «Non è stato facile? Beh, se fosse venuta fra qualche ora non ci avrebbe trovato», scherza Gilad.
Alle sue spalle, oltre la soglia , si vedono i tavoli quadrati dove i volontari – tre per ogni lato - digitano frettolosamente sulle tastiere dei pc portatili i dettagli conclusivi prima di spegnere. Sugli schermi scorrono foto e video “riservati”, ecco perché si affrettano ad abbassarli quando qualche esterno si avvicina. «Sono informazioni sensibili, vanno maneggiate con cura per i familiari», spiega Woav, tra i coordinatori della “sezione social”, la più numerosa delle 22 in cui i volontari si sono divisi le attività, oltre un centinaio di persone: a loro è toccato il compito di esaminare i filmati e gli scatti pubblicati da Hamas sui social in cerca di dettagli. Come Weli, seduta accanto, Woav è manager di una start up informatica.
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«Sì, sono qui in ferie. Perché? Come avrei potuto non farlo?», dice. «La cosa più difficile è stata dover guardare tutte quelle centinaia e centinaia di immagini dell’orrore sapendo che i protagonisti non erano attori di un film bensì donne e uomini in carne ed ossa», sottolinea Weli. «Noi non siamo esperti ma fanatici dei social», dicono Ori e Amir, entrambi 17ennei, venuti da Tel Aviv dalla provincia. Per farlo saltano le lezioni, ricominciate a distanza da martedì. «Gli insegnanti lo sanno. E ci hanno incoraggiato, come i nostri genitori. Ci hanno detto: “Almeno tutto il tempo trascorso con il telefonino in mano sarà stato utile”».
«Utile»: è una parole che gli israeliani rispettano sempre in questo tempo di lutto. Per contrastare il potere paralizzante del trauma, il Paese e i suoi abitanti si sono lanciati in un attivismo solidale frenetico. Le iniziative – accoglienza degli sfollati, invio di beni di prima necessità, omaggi artistici e virtuali – si moltiplicano. Le foto delle vittime e dei rapiti sono ovunque. Gli studenti dell’associazione United against terror le hanno disposte su ognuna delle mille sedie dell’auditorium dell’Università di Tel Aviv. Di contro, la vita normale fa fatica a riprendere: le strade sono vuote, come i ristoranti e i cinema. Il 7 ottobre non è finito. Anche perché, man mano che passano i giorni, emergono nuovi, macabri particolari.
Dodici giorni dopo, ancora, centinaia di funerali non possono essere celebrati perché non si riesce a ricomporre i corpi, orrendamente mutilati. Gli uomini di Zaka – l'associazione rabbinica che se ne occupa – sono scoppiati in lacrime in diretta mentre descrivevano quanto si erano trovati di fronte. Un’azione – secondo fonti di stampa non confermate dall’esercito – compiuta da menti annebbiate dal Captagon, la droga spesso utilizzata dai terroristi del Daesh. Tracce dell’anfetamina sarebbero state trovate nel sangue dei miliziani di Hamas uccisi nei combattimenti ai kibbutz. Molti avrebbero avuto pillole della sostanza nelle tasche. «Questo gruppo è a tutti gli effetti un’organizzazione terroristica», ha detto il presidente Isaac Herzog al premier britannico Rishi Sunak in viaggio di solidarietà a Israele dove ha incontrato i parenti degli ostaggi. Nel colloquio, Herzog ha “bacchettato” la Bbc perché non utilizza tale espressione.
Non c’è, però, solo il racconto dell’orrore. Pian piano, emergono anche le testimonianze di quanti hanno cercato di contenerlo. Yusuf Alzianda è uno di loro. Questo autista è un arabo israeliano del villaggio beduino di Rahat, nel deserto del Neghev. La notte del 6 ottobre, con il suo van da 14 posti, ha accompagnato nove ragazzi al rave Nova di Reim, cittadina dove Hamas ha assassinato 260 israeliani. «Alle 6.30 del mattino successivo ho ricevuto un messaggio da uno dei giovani che avevo accompagnato. Mi diceva che le sirene stavano suonando, c’era caos e dovevo andarli a riprendere », racconta Yusuf, nella veranda della sua piccola casa, con la voce lenta e gli occhi bassi, segnati da due occhiaie scure e profonde. Non riesce a dormire da allora, nonostante il sostegno psicologico e i farmaci. «Quando sono arrivato ho visto una donna ferita corrermi incontro. Gridava disperata. Ho capito che stava accadendo qualcosa di terribile e dovevo agire in fretta.
Così l’ho fatta salire e ho caricato quanti più giovani possibile. Non so come, ne ho fatti stare trenta, uno sopra l’altro. Avrei voluto portarne di più, ma non sapevo come... Con loro a bordo, sono corso al kibbutz Tze’elim, dove c’è la stazione della polizia e una clinica. Non ho fatto niente di speciale: solo quello che ci si aspetta da un essere umano».