Uno dei murale di TvBoy, artista italiano che ha lavorato con Cesvi a Irpin, alle porte di Kiev - Ansa
Erano molti anni – diciamo pure dall’epoca della Guerra fredda, quando la Russia si chiamava ancora Unione Sovietica - che la flotta del nord di Mosca non solcava le acque del Mar Baltico provvista di ordigni tattici nucleari. Quel tempo è ritornato, e i battelli della Federazione Russa oggi ostentano senza riguardi il proprio arsenale mentre attraversano gli stretti e pattugliano il Mare del Nord di fronte alle coste norvegesi. È solo uno dei piccoli e grandi cambiamenti intercorsi da quando la Russia di Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. Diciamolo pure, un nuovo disordine mondiale.
Com’è cambiato dunque il mondo da quel 24 febbraio di un anno fa?
RUSSIA
Quella che avrebbe dovuto essere un’operazione di polizia di frontiera a breve termine si è trasformata in una guerra di trincea sanguinosa e sanguinaria, che non ha risparmiato la popolazione civile e ha lasciato dietro di sé dolore e macerie. Pesantissimo anche per la Russia il conto in vite umane, che a fatica riesce a nascondere all’opinione pubblica un bilancio fallimentare sia sul piano militare, sia su quello politico. Nel denunciarne gli effetti si fa involontariamente profetico il ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov quando dice: «L'Occidente vuole trasformare la Russia in uno Stato-canaglia». Non è del tutto vero, ma di fatto il risultato è questo; anche se, numeri alla mano, nonostante le ripetute raffiche di sanzioni la Russia non si trova affatto al collasso per effetto delle sanzioni come avevano prefigurato gli analisti occidentali. Fra i motivi della sopravvivenza economica di Mosca c’è il petrolio, che viene venduto a prezzi di favore nel mercato asiatico e l’industria degli armamenti. E non si tratta solo di armi nucleari. Mosca e Nato si armano e si riarmano: solo un anno fa gli arsenali occidentali erano ragguardevolmente forniti, oggi non lo sono più. Oggi la sola Ucraina consuma più munizioni di quanto l’industria degli armamenti sia in grado di produrne e contemporaneamente gli stock dei Paesi europei (quindi in larga misura della Nato) si scoprono invecchiati, malfunzionanti e sovente in deplorevoli condizioni. Anche questo, l’urgente necessità di riarmare l’Alleanza Atlantica prima ancora di fornire soccorso all’Ucraina è un raggelante effetto della guerra.
EUROPA, NATO
Anche la Nato è profondamente cambiata. Fino a pochi mesi prima dell’invasione il presidente francese Macron l’aveva definita un organismo in stato di morte cerebrale. Un anno dopo due Paesi storicamente neutrali come la Svezia e la Finlandia decidevano di far domanda di ingresso nell’Alleanza Atlantica. Ma questo è solo un vistoso effetto collaterale. Sullo sfondo si intravede un’Unione Europea che si conferma di scarsa coesione e unità d’intenti, soprattutto per ciò che concerne la difesa comune e la politica estera dei singoli Stati membri. Non stupisce quindi né il rassodarsi di quell’asse Parigi-Berlino né le profonde (ma a volte nascoste) divisioni all’interno, che il conflitto russo-ucraino ha evidenziato nel meno nobile dei modi. Tanto che la sovrapposizione netta fra Nato e la Ue ha finito per relegare l’Europa a quasi un’astratta entità geografica a dispetto di un’Alleanza a guida americana e britannica che ha sostanzialmente preso le redini della guerra. «I prossimi mesi – dice l'Alto Rappresentante per la politica estera dell'Ue Josep Borrell – saranno decisivi, la guerra si deciderà questa primavera e questa estate». In compenso è cresciuta a dismisura la minaccia di un’escalation: solo tre giorni fa il Parlamento Ue ha approvato una risoluzione nella quale si chiede di fornire a Kiev aiuti militari «whatever it takes», per tutto il tempo necessario, compresa la fornitura di jet.
STATI UNITI
«Il presidente Putin ha scelto una guerra premeditata che porterà una catastrofica perdita di vite umane e sofferenze umane. Solo la Russia di Vladimir Putin è responsabile della morte e della distruzione che questo attacco porterà, e gli Stati Uniti, i loro alleati e partner risponderanno in modo unito e deciso. Il mondo riterrà responsabile la Russia e le chiederà conto». Così parlò Joe Biden mentre i carri armati russi varcavano il confine ucraino nella notte del 24 febbraio di un anno fa. Per dodici mesi gli Stati Uniti hanno progressivamente fornito armi e assistenza all’Ucraina imponendo alla Nato un comportamento analogo. Oggi però ci si trova, per usare un’espressione cara al presidente americano, a «un punto di flessione». Tradotto dal gergo diplomatico, Washington non può consentirsi uno stallo infinito e nemmeno una prolungata inerzia sul terreno di battaglia. «Non si può andare avanti in eterno», fanno sapere al Dipartimento di Stato americano, perché «prima o poi ogni guerra finisce con un negoziato». Il leader ucraino Volodymyr Zelensky, dicono gli americani, prima o poi dovrà decidere di trattare. Ma Biden ha svariate spine nel fianco. La prima è una Camera passata da poco ai repubblicani, assai poco disposti a finanziare all’infinito una guerra lontana dagli occhi degli elettori e con una lunga campagna elettorale in arrivo. La seconda è l’imminenza delle candidature alle elezioni presidenziali del prossimo anno: per il Grand old party si schierano Donald Trump e Nikki Haley e a seguire – ma non è ancora ufficiale - il favorito Ron DeSantis, l’ex capo della Cia Pompeo, l’ex vice presidente Pence. L’attuale presidente Joe Biden invece non lo ha ancora annunciato ufficialmente. Anche perché, come vedremo, la spina più dolorosa nel suo fianco si chiama Cina.
CINA, INDIA
A proposito della quale, il discorso si fa più complesso. Il ritiro americano dall’Afghanistan già prefigurava quali fossero i veri interessi e i reali obbiettivi della Casa Bianca: il contenimento della Cina sul piano commerciale e soprattutto sul piano militare, considerata la poderosa accelerazione delle spese per armamenti di Pechino. La riconferma di Xi Jinping a un terzo mandato (di fatto, una sorta di investitura regale, la stessa cui puntano sia Putin sia Erdogan) accentua il problema del rapporto fra Mosca e Pechino. Quanto vale quella «amicizia senza limiti e senza divieti alla cooperazione» riconosciuta dai due autocrati? E quanto dipende la Russia dalla benevolenza cinese? I tentativi americani di frapporsi all’asse indo-russo-cinese (stiamo parlando – solo considerando Delhi e Pechino – di due miliardi e ottocento milioni di persone, cui possiamo aggiungere l’Indonesia: il che pone il Continente asiatico come vero attore politico ed economico globale con la Russia che passa in secondo piano) non hanno dato i risultati sperati. Neppure con l’India, considerando che il 20% dell’arsenale indiano è costituito da cannoni, cacciabombardieri, elicotteri. droni, sistemi antimissile rigorosamente di fabbricazione russa. Merito – si fa per dire – dell’ambiguo silenzio che Narendra Modi ha mantenuto da un anno sull’invasione russa dell’Ucraina: mai un accenno, al di là di un generico appello alla pace. In compenso all’Onu l’India si è astenuta evitando di votare la mozione di condanna contro Mosca. Pechino – che ostenta l’auspicio di “una pace accettabile per tutti” - ha preso invece le distanze dall’ipotizzato impiego di armi nucleari più volte ventilato dalla Russia: Xi Jinping si accontenta di ammonire l’Occidente senza troppo spalleggiare Mosca. Anche se, giusto un anno fa, ha attribuito alla mentalità da Guerra fredda della Nato la responsabilità dell’operazione speciale di Putin. Visione che dodici mesi dopo non è sostanzialmente cambiata.
MEDIO ORIENTE
Anche se apparentemente non vi sono relazioni dirette, la carta geopolitica del Medio Oriente da un anno a questa parte è cambiata. Il nuovo governo di ultradestra guidato ancora una volta da Benjamin Netanyahu, l’escalation di violenze in Cisgiordania (220 palestinesi e 30 israeliani uccisi nell’ultimo anno) che fanno presagire una nuova intifada, la crisi della democrazia nel Paese stanno mutando il volto di Israele. Attorno a cui ruotano, come sempre gli irrisolti nodi della Siria, dell’Iran, della sommessa rinascita di al-Qaeda. Sotto traccia, quel lucroso mercato delle armi per il quale (Turchia, Iran e anche Corea del Nord insegnano) non esistono confini certi, e nemmeno schieramenti. Il che fa del Medio Oriente nuovamente una polveriera che il conflitto ucraino rende ogni giorno più pericolosa.