giovedì 7 novembre 2024
Delusi dai democratici e preoccupati dall'inflazione, moltissimi ispanici hanno scelto il fronte conservatore. E questo malgrado le invettive anti-immigrati del candidato repubblicano
Anche in Texas ha vinto Trump

Anche in Texas ha vinto Trump - Ansa

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Non accadeva da 132 anni. Nella contea texana di Starr, i 65mila abitanti al 97 per cento ispanici hanno scelto a maggioranza netta Donald Trump. L’ha votato il 57,7 per cento contro il 41,8 per cento che ha preferito Harris. L’ultima vittoria del repubblicano risaliva al 1892. Non solo Starr l’azzurra – colore simbolo dei dem – si è tinta di rosso, emblema del Grand old party (Gop). L’enclave “latina” per eccellenza ha optato per uno dei candidati più aggressivi in ambito migratorio degli ultimi decenni. Dagli haitiani “mangia-cani” di Springfield a gli irregolari che «avvelenano il sangue» d’America, battute e invettive nei confronti dei nuovi arrivati sono state all’ordine del giorno in una campagna i cui pilastri sono stati la chiusura ermetica del confine con il Messico e la deportazione di massa degli “indocumentados”. Questo, però, non ha impedito al leader conservatore di conquistare una fetta sorprendentemente alta del voto ispanico. Certo, il 53 per cento ha puntato sull’attuale vice. A inclinarsi per il repubblicano, però, è stato il 45 per cento, il 25 per cento in più rispetto al 2020. La distanza tra i due fronti è passata da 33 a otto punti percentuali e fra i giovani maschi il sostegno a Trump è stato addirittura maggioritario. Molti sono i fattori che hanno portato all’exploit. Si possono, però, sintetizzare con la parola “frustrazione”. I latinos si sentono delusi dai democratici, incapaci di realizzare la grande promessa della regolarizzazione degli undici milioni di irregolari presenti nel Paese in molti casi da anni o decenni. L’ultima normativa che ha offerto una via d’uscita dal cono d’ombra a tre milioni di migranti è stata firmata nel 1986 da Ronald Reagan. Da allora, vari presidenti hanno cercato di affrontare la questione che porterebbe nelle casse dello Stato, in termini di contributi e tasse, 1,5 miliardi di dollari in dieci anni, secondo le stime dell’Università della California. Barack Obama e Joe Biden ne hanno fatto uno dei punti forti dei rispettivi programmi. Entrambe le volte, però, gli sforzi legislativi si sono infranti contro la barriera dei veti incrociati di Camera e Senato. Kamala Harris, così, ha preferito non toccare il tema in campagna. Più che lanciare una nuova visione, la candidata dem ha reagito alle provocazioni del rivale, differenziandosi in termini di toni e accenti. Sulla necessità di frenare gli arrivi, però, le differenze sono state più di forma che di sostanza. Una replica della linea dell’attuale Amministrazione che, nei fatti, ha agito sulla scia trumpiana di “allontanare la frontiera”, appaltando al Messico il ruolo di gendarme. Alla rabbia per le promesse non mantenute in ambito migratorio, si somma quella per la sensazione di non avere beneficiato della stagione di crescita economica. In questo, i latinos non si discostano dal resto dei lavoratori a bassa e medio reddito.

Su questi ultimi, l’impatto dell’inflazione è stato particolarmente forte. Solo un quinto degli ispanici, nei sondaggi della vigilia, considerava soddisfacente la propria condizione finanziaria e la metà ha detto di avere dovuto ridurre gli acquisti di alimenti a causa dei costi elevati. Su di loro, glii appelli populisti di Trump, incentrati sul protezionismo in un’ottica di difesa degli americani, hanno avuto presa facile. Il che offre un importante elemento di riflessione al Partito democratico: le minoranze hanno iniziato a votarlo in massa nel 1930, trent’anni prima delle campagne per i diritti civili. Ad attrarre neri, immigrati e gruppi sociali con meno risorse il New Deal roosveltiano che ha trasformato i dem nello schieramento dei lavoratori. Ora questi ultimi si sentono orfani.

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