ANSA
«Quale fossa comune cerca? Ne abbiamo tante qui intorno». Nel deserto roccioso che collega il nord di Damasco con Homs, al-Qutaifa spunta un “pezzo” dopo l’altro. Prima i condomini in costruzione nell’ambito di un programma di case popolari del vecchio regime. Poi, ai piedi della collina, la piazza con al centro un piedistallo vuoto e, intorno, i frantumi della statua di Bashar al-Assad. Infine, la stazione di polizia. È tappa obbligata per avere informazioni sull’enorme fossa comune – delle dimensioni di un campo da calcio – trovata nei dintorni dai reporter di al-Jazeera due giorni fa.
All’interno del commissariato, bivacca una decina di uomini in jeans, scarpe da tennis e camicia verde oliva, tipo militare. «Ma non siamo combattenti di Hayat Tahrir al-Sham (Hts)», puntualizza uno di loro. Non rivela il suo nome: dice solo di essere nato ad al-Qutaifa, di avere 49 anni e di avere trascorso undici mesi del 2014 nella prigione 227, gestita a Damasco dall’intelligence della dittatura. «Perché mi hanno rilasciato? La mia famiglia ha pagato, tanto. Era l’unico modo per uscire. Vivo. Morti ne uscivano tanti. Ogni giorno, portavano via i corpi di undici o dodici detenuti, morti per le torture o assassinati. Qualcuno sarà finito anche qui sotto – racconta, puntando l’indice verso il basso –. La Siria di Assad era un’enorme fossa comune. Per tredici anni, la dittatura ha sepolto, instancabilmente la Primavera del 2011».
L’elenco ufficiale degli scomparsi nelle mani del Comitato internazionale della Croce Rossa si ferma a 35mila. Appena un quarto della cifra stimata dalle principali organizzazioni per i diritti umani siriane: tra 136mila e 150mila. Meno di ventimila sono stati ritrovati da domenica. L’ex prigioniero è, dunque, felice che quell’era crudele, durata decenni, si sia conclusa. «Anche se viviamo momenti difficili. Qui le truppe di Hts e le forze del nuovo governo non sono ancora arrivate. Nel vuoto, ci sono stati saccheggi e furti. Così ci siamo organizzati». Due giorni fa, sono stati distrutti, uno dopo l’altro, i piccoli empori all’entrata di al-Qutaifa. Il proprietario, Mofak, 48 anni, originario di Idlib, in attività dal 2020, ha deciso di continuare a vendere caffè, tè e biscotti su un banchetto provvisorio piazzato lungo il ciglio della strada. Ahmad, 35 anni, fuggito nel 2019 da Deir ez-Zor nel pieno della battaglia tra curdi e forze pro-Ankara, indica concitato la sua rivendita di ricambi per auto ridotta a un cumulo di macerie. «Per favore, faccia una foto: il mondo deve vedere».
Di fronte al susseguirsi di razzie, è sorta la milizia cittadina. Le armi, dopo tredici anni di guerra civile, sono drammaticamente diffuse. I “poliziotti ad interim” – come si definiscono, perché sostengono di essere pronti a lasciare quando sarà garantita la sicurezza – hanno fatto scorta di Kalashnikov. «Ma non devi avere paura, vogliamo solo proteggere i cittadini», aggiunge il più anziano, la testa avvolta in una kefiah rossa. Alcuni escono per strada a regolare il traffico e controllare i negozi, ancora chiusi, ad eccezione di uno che vende camicie militari, l’uniforme della “milizia”. Dentro l’edificio, uno è intento ad attaccare al muro, con lo scotch, la bandiera con tre stelle della rivoluzione che ovunque ha sostituito il drappo della dittatura. Mentre decidono a quali cimiteri clandestini vale la pena di accedere, distribuiscono succhi di frutta e sorrisi. «Benvenuti, benvenuti nella Siria libera», ripetono. Appena dietro la stazione di polizia c’è la fossa «minore», come la chiamano. Si tratta, in realtà, di un piccolo cimitero nelle cui tombe, però, sono stati sepolti in modo anonimo decine di scomparsi. Ald Bukia, invece, è a una decina di minuti d’auto, è un enorme sterrato. Fino a sei giorni fa, un check-point militari la rendeva inaccessibile. Dietro un alto muro bianco, blindato da un cancello di ferro, c’era un presidio di soldati iraniani, specializzati in telecomunicazioni, come si vede dalle istallazioni lasciate indietro nella fuga della settimana scorsa, alla vigilia della caduta del regime.
Colonne di blindati con truppe di Teheran e Mosca sono state viste andar via precipitosamente dalla capitale sabato scorso. Da allora, i russi si sono rifugiati nella base aerea di Khmeimim e nel porto di Tartus. Ieri, però, anche queste istallazioni sembravano sul punto di essere sgomberate. Nel frattempo la flotta del Cremlino ha lasciato Tartus. Segno che i contatti di due giorni fa tra Mosca e il nuovo governo non sono stati soddisfacenti. «Prima che arrivassero gli iraniani, circa tre anni fa, Ald Bukia era una maxi-fossa comune. L’hanno scavata nel 2014 per seppellire, sotto quattro metri di terra, migliaia di persone. Non posso dire quante ma, tra il 2021 e il 2022, quando hanno deciso di trasferirli – non si sa se perché temevano che fossero scoperti o per far posto ai pasdaran – hanno impiegato un mese, al ritmo di quattro camion al giorno» sottolinea l’agente in pectore. La fossa ha così traslocato nei pressi del Baghdad Bridge, dove l’hanno trovata i giornalisti di al-Jazeera. Ma la zona resta “vietata”. A meno di 24 ore dalla scoperta, ne sono spuntate altre due, una al Bridge 5, lungo la strada per l’aeroporto della capitale, l’altra nel distretto di Tadamon. Poi ci sono le decine di corpi di detenuti ammassati negli obitori di Damasco dove li hanno portati i ribelli man mano che le carceri venivano aperte e svuotate. «Ed è solo la punta dell’iceberg – conclude l’uomo -. Ci vorranno anni per sapere la verità. E sarà più dolorosa di quanto immaginiamo».
Ora, però, per la Siria è il tempo sospeso della festa per l’uscita dall’incubo, prima di risvegliarsi in una realtà ancora inimmaginabile. Accogliendo l’invito del leader di Hts, Abu Mohammed al-Jolani, Qutaifa, la gente di Qutaifa sale sui bus diretta a Damasco per festeggiare nel primo giorno di preghiera dalla fine del regime nella moschea degli Omayyadi, piena all’inverosimile. Poi la folla ha invaso lapiazza omonima, fino a notte fonda. Musica e spari. Il rumore, dopo mezzo secolo di silenzio, è rivoluzione.