Una casa distrutta a Borodianka, nella regione di Kiev - Reuters
Siamo davvero alla vigilia di una grande offensiva russa, ribattezzata dai più come campagna d’inverno? Forse, la “gigantesca” battaglia è già iniziata. Da metà gennaio, l’Armata Rossa detta i ritmi delle operazioni. Non accadeva da luglio e, in guerra, chi comanda l’iniziativa ha le chiavi di vittorie future, con tutte le incognite del caso. Un anno di disavventure russe in Ucraina invitano alla prudenza. Nemmeno il clima offre tante possibilità. C’è solo un mese, poi tornerà la “rasputitsa”, il pantano che fu la tomba della Grande Armée e della Wermacht. Le manovre dei corazzati saranno impossibili e vano sarà tentare di sfondare velocemente il fronte. Se i comandi russi pensano alle offensive di Rommel a Dinant, folgoranti sulla Mosa, possono solo sognarsele. Finora si sono mostrati incompetenti nel combattimento meccanizzato ed è illusorio pensare che abbiano colmato le lacune. I 300mila riservisti mobilitati a ottobre hanno ricevuto solo un’infarinatura. Non sono spendibili in offensive simmetriche, coordinate e interarma. Nessuno dei belligeranti ha la possibilità di aggirare dall’alto o da terra le fortificazioni campali che dominano i mille chilometri di fronte del Donbass.
I russi si illudono che la prossima conquista di Bakhmut preluda alla caduta di Kramatorsk, loro obiettivo primario. Ma l’idea è fantomatica, almeno a breve. L’asse fra Sloviansk, Kramatorsk, Druzhkivka e Artemisvsk è l’area più militarizzata della terra. Ricorda il 38° parallelo fra le due Coree. Sia Kiev che Mosca vi hanno imbastito capisaldi concentrici: un sistema perfezionato dal 2014, che si snoda su trincee, fossati anticarro, campi minati su chilometri, postazioni scavate e artiglierie che vomitano bombe incessantemente. Aggirare il blocco con i paracadutisti è impensabile: le difese antiaeree sono quasi ermetiche. Nemmeno i bombardieri varcano più il confine.
Ce lo rammentano i raid di avant’ieri, tutti scagliati da lungi: vuoi dal Mar Caspio e dal Mar Nero, o ancora dalla regione russa di Kursk. Solo due caccia hanno osato alzarsi in volo da Melitopol. Né Kiev, né Mosca sono poi capaci di emulare gli sbarchi americani di Incheon, nella Corea del 1950, unico modo per infiltrare masse di uomini oltre l’inferno. Nessuno ne ha i mezzi, né avrebbe la possibilità di alimentare la testa di ponte. Lo smacco russo a Kherson è un monito severo. Per tutti. Ecco perché la grande offensiva russa d’inverno assomiglia a una chimera. Si ridurrà in una pressione irresistibile dell’artiglieria e all’assalto con onde di fanti, sperando di logorare il nemico. Una tattica che darà frutti solo nel lungo periodo. Ma a quel prezzo? Nel mese trascorso da metà gennaio a oggi, l’Armata Rossa ha subito perdite colossali, per rosicchiare appena 278 kmq: un’area di 16 km di lato, su un fronte che di chilometri ne conta mille.
Troppo poco per credere a spallate decisive. Del Donetsk i russi controllano oggi il 56,65% e Prighozine, che vi schiera 50mila mercenari, ha detto chiaro e tondo che per espugnare tutta la regione occorreranno almeno tre anni. Molto più di quanto impiegò Stalin per piegare l’eroica Finlandia (1939-1940). Un’operazione cruenta e lentissima, che ricorda le dinamiche attuali russo-ucraine. Come ammonisce da sempre Avvenire, la guerra è una follia insolvibile con le armi.