Ansa
Ha perso una battaglia, ma non (ancora) la guerra. La sconfitta militare del Daesh all’interno dei suoi «territori metropolitani » in Siria e in Iraq e la successiva eliminazione del suo leader, Abu Bakr al-Baghdadi, non nasconde una verità amara: l’organizzazione si sta riattivando come logistica e reclutamento e potrebbe «risorgere improvvisamente laddove si pensava di averla sepolta per sempre», come affermano molti analisti. Le sei “sacche” del gruppo tuttora presenti nella Badiat al-Sham, il Deserto siriano, sono una prima piccola conferma di questa possibilità. L’altra è il ritmo crescente degli attacchi, che ha raggiunto la media di 110 al mese. Il generale Kenneth McKenzie Jr, a capo del CentCom americano, ha detto nella sua relazione di mercoledì scorso, che il Daesh aspira ancora a «ristabilire un Califfato fisico» e che promuove per farlo «una presenza informatica globale pur mantenendo una struttura cellulare che gli consente di svolgere attacchi locali». Si conferma così nei due Paesi mediorientali l’ago attuale del jihadismo, una volta – pensiamo in particolare all’epoca di al-Qaeda – puntato sull’Arabia Saudita e dintorni, come Yemen e Kuwait.
Il contagio jihadista si è fermato anche ai confini della Giordania, grazie alla vigilanza dell’intelligence che ha sventato almeno tre attentati contro obiettivi civili e militari. Nel contempo, si fanno sentire le filiali del gruppo sparse tra Asia e Africa, soprattutto quelle del Sinai e dell’Afghanistan, quest’ultima definita dal generale McKenzie come «una delle più letali filiali del network del Daesh».
Siria Il Daesh rialza la testa e, nei mesi scorsi, è riuscito a espandere il suo controllo di fatto su un territorio di oltre 4mila chilometri quadrati. Gli attentati sono soprattutto concentrati nelle province di Deir ez-Zor (metà dei 131 registrati nel terzo trimestre del 2020) e di Raqqa, la ex capitale del gruppo in Siria. I jihadisti controllano ancora cinque aree nel deserto siriano, nonostante i continui raid dei caccia russi (l’ultimo del 20 aprile a nordest di Palmira). Tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, i jihadisti hanno messo a segno due sanguinosi attacchi nella zona centrale del Paese, provocando circa 60 morti, in larga parte soldati governativi. Nel primo attacco è stato condotto il 30 dicembre contro un convoglio di cisterne di petro- lio sulla strada che collega Palmira a Deir ez-Zor, sull’Eufrate. Il bilancio è stato di 39 soldati uccisi (25 civili, secondo il regime) della famigerata Quarta divisione dell’esercito, comandata da Maher al-Assad, il fratello del presidente siriano. Il secondo agguato è avvenuto quattro giorni dopo sulla strada che collega Damasco a Raqqa, ex capitale del Daesh in Siria. L’attacco, nel quale sono morte 15 persone (12 militari governativi e tre civili) ha preso di mira un pullman carico di soldati e civili che si dirigevano nel nord del Paese. Secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani, solo nel 2020 il Daesh in Siria ha ucciso 819 militari e miliziani filo-governativi, contro almeno 507 jihadisti morti.
Iraq Il Daesh mantiene una grande presenza territoriale nel deserto di Ninive, non lontano dalla frontiera con la Siria. Ma gli attentati del gruppo raggiungono altre zone ancora, come dimostrano i ripetuti attacchi nelle province di Diyala e Salahuddin, nel centro del Paese, ma anche a Kirkuk e nella provincia occidentale di al-Anbar. Le forze di sicurezza irachene cercano di contrastare le attività di riorganizzazione del gruppo procedendo a retate contro sospetti simpatizzanti, ma anche a vere e proprie operazioni di rastrellamento, come quella che ha portato, nel marzo scorso, all’eliminazione di «200 nascondigli del Daesh» nelle zone montuose del nordest iracheno. Qui il Daesh ha inizialmente lanciato operazioni “mordi e fuggi” utilizzando armi leggere, ordigni esplosivi improvvisati e mortai. Ma a partire dal secondo trimestre del 2020, ha cominciato a organizzare attacchi più sofisticati che riflettono, secondo il Central Command Usa, «un’ampia pianificazione». Secondo gli esperti, i jihadisti agiscono in piccole cellule di 15 persone al massimo.
Egitto L’ombra del jihadismo è cambiata negli ultimi anni. Ora si potrebbe parlare, secondo l’analista Georges Fahmi, di un «mercato della violenza» ben sviluppato e gestito da differenti gruppi, ognuno dei quali cerca di ottimizzare le proprie quote sulla piazza. I movimenti jihadisti locali si dividono in tre categorie principali. La prima è composta dai gruppi salafiti affiliati al Daesh e includono sia quelli che operano nella penisola del Sinai (la cosiddetta Wilaya del Sinai, responsabile dell’80 per cento degli attentati registrati dal 2018 a oggi) sia quelli attivi nel resto del Paese (Il Cairo e Giza in particolare) sotto la denominazione di «Stato islamico in Egitto». La seconda categoria comprende altri gruppi salafiti, ma stavolta affiliati ad al-Qaeda, come Jund al-Islam (i Soldati dell’islam), presenti nel Deserto occidentale, e Ansar al-islam (i Partigiani dell’islam) che operano nel nord del Sinai. Infine, i gruppi riconducibili ai Fratelli musulmani come Hasm (acronimo arabo del Movimento delle braccia d’Egitto) e Liwa al-Thawra ( Stendardo della rivoluzione), emersi sulla scena a partire dal 2015, dopo la destituzione di Morsi, responsabili di vari attentati contro personalità religiose e della sicurezza vicine al regime.
Libia I jihadisti libici sembrano aver perso l’iniziativa. Dopo la disfatta, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, dei gruppi jihadisti (dal Consiglio della gioventù islamica, poi aderito al Daesh, ad Ansar al-Sharia) e la perdita dei loro capisaldi a Sirte e Derna, si trovano principalmente concentrati nella regione del Fezzan, nel Sud del Paese. La strategia di reclutamento punta qui sulle comunità più vulnerabili economicamente, da sempre escluse dalla manna del petrolio, con la promessa di facili guadagni. Un importante sviluppo avvenuto nel 2020 è stata l’uccisione del leader locale del Daesh, tale Abu Moaz al-Iraqi, per mano dell’esercito fedele al generale Khalifa Haftar. Altre cellule del gruppo sarebbero sparse nelle principali città del Paese e mantengono un profilo basso. Anche i jihadisti vicini ad al-Qaeda, come la Brigata dei martiri di Abu Salim (dal nome di un noto centro di detenzione di prigionieri politici sotto Gheddafi), hanno cercato rifugio nel sud, dove si sono convertiti in bande che contrabbandano esseri umani, armi e droga.
Afghanistan «L’America rischia di consegnare l’Afghanistan ai taleban», metteva in guardia The Economist poche settimane fa, prima dell’ultimo annuncio del ritiro delle truppe statunitensi dal Paese, che dovrebbe finire entro l’11 settembre. L’impennata degli attentati negli ultimi mesi non lascia presagire nulla di buono. Il bilancio del 2020 parla di 2.248 militari (tra forze filo-governative e contingenti multinazionali) e 1.460 civili uccisi negli attentati e negli scontri. Un ritmo che sembra continuare anche quest’anno: circa 900 militari e 300 civili uccisi fino a oggi. Nel Paese asiatico si fanno sempre più allarmanti le connessioni del Daesh. Il governo afghano aveva proclamato, già nel novembre 2019, la «disfatta definitiva» del Daesh nel Khorasan – come la “filiale” locale si fa chiamare – in seguito a una grande operazione nella provincia di Nangarhar, sul confine con il Pakistan. Per essere smentito poco dopo. I terroristi del Califfato si sono resi responsabili degli attentati più sanguinosi, come l’attentato condotto da quattro kamikaze contro il tempio sikh di Kabul nel marzo 2020 e l’assalto condotto da attentatori suicidi contro l’Università di Kabul dello scorso novembre.