Un'immagine della Cop28 a Dubai - Ansa
Il collo di bottiglia della Conferenza Onu sul clima (Cop28) si chiama “adattamento”. Giunti al giro di boa – oggi comincia la maratona finale – i negoziati sono incagliati su questo termine che indica le misure per arginare gli impatti più gravi del riscaldamento globale, ad un costo di 215 miliardi di dollari l’anno secondo il Programma delle Nazioni Unite per il clima (Unep). Cifre impensabili per le nazioni del Sud del mondo le quali – come prevedono gli accordi di Parigi – devono essere sostenute dagli “inquinatori storici” ovvero dai Paesi di vecchia industrializzazione.
A Dubai, però, la gran parte nicchia. Dei 300 milioni di dollari previsti per il Fondo sull’adattamento ne sono arrivati finora 160 milioni. “Colpa” del nuovo pacchetto finanziario per aiutare le nazioni più vulnerabili a ripagare i danni degli eventi meteorologici estremi. La sua entrata in funzione, in apertura del vertice, è stata considerata una vittoria storica del “Sud globale” dopo trentadue anni di attesa.
«E lo è. È una pietra miliare nella storia della Cop. Il punto è che molti governi non hanno destinato soldi aggiuntivi per finanziare l’iniziativa. Li hanno semplicemente spostati dal capitolo “adattamento” a quello “perdite e danni”», spiega Linda Kalcher, fondatrice del think thank Strategic Perspectives esperta di negoziati climatici.
Molti governi hanno destinato fondi al pacchetto per ripagare alle nazioni fragili i danni degli eventi meteorologici: una pietra miliare. Quei soldi, comunque, non dovevano essere «spostati» dagli altri capitoli, che richiedono interventi aggiuntivi
Il nuovo fondo ha ottenuto 650 milioni di dollari, incluse le maxi-donazioni di Italia e Francia – entrambe 108 milioni – e Emirati Arabi e Germania, 100 milioni ciascuno, mentre Usa e Giappone si sono limitati a 17,5 milioni e 10 milioni. La somma, in ogni caso, equivale allo 0,2 per cento delle perdite irreversibili causate dal clima alle nazioni in via di sviluppo.
Per ripararle ci vogliono miliardi: i 100 e i 580, a seconda dei calcoli. La sproporzione tra teoria e pratica è evidente. Soprattutto agli occhi già sfiduciati dei negoziatori di Africa, Asia e America Latina. «Hanno l’impressione che il Nord globale non mantenga gli impegni. Due anni fa, a Glasgow, era stato deciso il raddoppio dei fondi per l’adattamento per raggiungere i 40 miliardi l’anno a partire dal 2025. Nella bozza di documento finale, però, al di là delle dichiarazioni di principio, non vengono previsti dei passi concreti per raggiungere l’obiettivo.
La parte sull’adattamento è estremamente fumosa. Va corretta. È questione di equità. E di buon senso politico: la leva finanziaria è cruciale per convincere molti Stati del Sud a unirsi alla coalizione di 120 nazioni che sostiene l’eliminazione graduale dei combustibili fossili», sottolinea la studiosa. Il tempo per correggere il tiro è poco: oggi il testo sarà consegnato ai ministri delegati, di ritorno a Dubai per la chiusura del summit. Poi comincerà una discussione frenetica che, tra riunioni notturne, round improvvisati nei corridoi e porte sbattute, dovrebbe terminare martedì.
«Sarà, però, difficile: con tutta probabilità si andrà ai supplementari». Anche perché c’è il nodo spinosissimo dall’addio agli idrocarburi. Due versioni su tre dell’articolo cardine del testo provvisorio diffuso martedì – il 35 – parlano di «eliminazione giusta e ordinata» o di «progressi verso» lo stop. La terza ignora la questione. «Ed è l’unica che accetteremo», ha tuonato il ministro saudita dell’Energia, Abdulaziz bin Salman. Sulla stessa linea Cina, Russia e Iraq. Mentre gli Usa, a parole propendono per l’addio, nei fatti hanno raggiunto il record di estrazioni. L’Unione Europea guida il fronte degli ambiziosi.
Il commissario per il Clima, Wopke Hoekstra, ha detto che la Cop28 segnerà la fine dell’era dei combustibili fossili. Sulla stessa linea Stati insulari e America Latina, nonostante il passo indietro del Brasile che ha annunciato l’entrata nell’Opec proprio a Dubai. Se accadrà davvero dipende in buona parte dal cosiddetto “gruppo dei 77” che in realtà include oltre 120 Paesi, molti africani. «Lo schieramento è diviso. Il Kenya, però, sta tessendo una coalizione per lo stop – conclude –. La prima menzione ai combustibili fossili risale ad appena due anni fa. I passi avanti, dunque, ci sono stati. E stavolta abbiamo l’occasione di fare il salto, chiudendo il capitolo idrocarburi. Non possiamo perderla».