A Zaporizhzhia il solo passaggio. In un mese appena dieci persone uscite dalle regioni conquistate. - Reuters
A Zaporizhzhia lo chiamano il «varco». È la striscia di terra che collega l’Ucraina libera a quella in mano alle truppe di Mosca. Un corridoio informale, a trenta chilometri dalla città che dà il nome alla regione e che per chi fugge dall’occupazione russa è il primo approdo. Fino a dicembre è stata la frontiera della speranza; il passaggio per raggiungere l’unico posto di blocco della polizia locale dopo aver attraversato le “aree grigie”, quelle terre di nessuno che non sono presidiate né dai militari di Kiev, né dal nemico; la sola via d’uscita dal terrore e dalle rappresaglie. Poi le autorità provvisorie che fanno capo al Cremlino hanno dato l’ordine di chiudere tutto. O meglio, hanno imposto che si potesse lasciare l’Ucraina meridionale solo con un lasciapassare. Permessi impossibili da ottenere negli ultimi due mesi. L’effetto è stato quello di una «reclusione forzata per gli abitanti ucraini», come la definisce il sindaco in esilio di Melitopol, Ivan Fedorov, che denuncia: «Da gennaio appena dieci persone sono riuscite a giungere a Zaporizhzhia dalle zone occupate. Di fatto le forze russe tengono imprigionata la nostra gente».
Il rifugio per gli sfollati dalle zone occupate che si trova nei sotterranei della fabbrica di vodka “Khortytsa” a Zaporizhzhia - Gambassi
Un giro di vite che sta cambiando il volto del capoluogo. Finora era la città dei rifugiati. «Adesso i nuovi arrivi sono centellinati. E molti di quanti erano venuti fra settembre e dicembre se ne sono andati: troppo rischioso restare qui, a meno di cinquanta chilometri dal fronte, dove i missili sono all’ordine del giorno», racconta suor Lucia, la religiosa di San Basilio che con due consorelle è in prima linea nell’aiuto alla popolazione sotto attacco e nel soccorso agli evacuati. Eppure Zaporizhzhia rimane la porta dell’accoglienza dove le autorità locali, l’associazionismo e le Chiese – da quella cattolica a quelle protestanti – sono accanto agli sfollati. «Ci sono centri di registrazione che li immettono subito nel circuito dei rifugiati, che offrono sussidi, che permettono di trovare un tetto», riferisce suor Lucia. E ci sono gli «shelter», come li chiamano qui: i rifugi creati a tempo di record che diventano la casa provvisoria per chi ha abbandonato tutto pur di lasciarsi alle spalle l’incubo della colonizzazione russa. «Nei mesi scorsi il tempo massimo di permanenza era di una settimana: avevamo troppe richieste. Oggi ospitiamo famiglie che sono con noi anche da ottobre», spiega Irina Makienko. È la coordinatrice del presidio ricavato in uno dei sotterranei della fabbrica di vodka “Khortytsa”, marchio che esporta anche in Italia o negli Usa. Cento i posti a disposizione, ma adesso quelli occupati sono 58. Da famiglie con bambini per lo più, ma anche da anziani che vengono da Mariupol, Melitopol o dalla regione di Kherson controllata dal Cremlino. «La proprietà ci ha concesso non solo uno spazio sicuro, al riparo dalle bombe, ma anche l’energia elettrica e il riscaldamento. Tutto gratuitamente. Compresa la mensa aziendale per i pasti», dice la donna.
La religiosa basiliana suor Lucia con i bambini e con Irina Makienko, coordinatrice del rifugio nella fabbrica di vodka “Khortytsa” a Zaporizhzhia - Gambassi
Rifugiati e operai convivono fianco a fianco, entrando e uscendo anche dallo stesso ingresso. «Dall’inizio dell’invasione sono passati di qui più di 3mila profughi», precisa Irina. E anche lei lo è. Abitava in Crimea fino ad aprile. «Non potevamo andarcene prima. Avevo i figli piccoli. Vogliamo vivere liberi e non è possibile farlo in una penisola dove buona parte della popolazione sostiene Putin ed è convinta che sia giusto conquistare l’Ucraina». La guerra è stata la molla per tagliare i ponti con un passato ingombrante. «I miei due ragazzi sono in Germania a studiare. Io e mio marito siamo rimasti per sostenere il nostro Paese aggredito».
Il rifugio per gli sfollati dalle zone occupate che si trova nei sotterranei della fabbrica di vodka “Khortytsa” - Gambassi
Alle spalle ha un dispensario con abiti, prodotti per l’igiene e giocattoli, mescolati alle bandiere dell’Ucraina che scendono dalle condutture dell’aria calda. «La gente che arriva nel rifugio non ha più nulla. In molti casi si presenta con una valigia in mano o poco più». E con le ferite nell’anima. «Abbiamo creato anche un servizio psicologico», aggiunge la responsabile. Una mamma stende i panni vicino al “giardino dei bambini”. «È il nostro asilo interno – indica Irina –. Quasi la metà degli ospiti è minorenne». Nel tavolo dietro l’angolo Fedor e Luka seguono online le lezioni di scuola davanti a due computer portatili.
Aleksay, lo sfollato diventato cuoco nel rifugio creato nella fabbrica di vodka “Khortytsa” a Zaporizhzhia - Gambassi
Non è un unico, immenso dormitorio quello in cui si coabita. Con i séparé di una fiera sono state ricavate le camere. Alcune sono vuote, ma con le lenzuola già sistemate sui materassi. «Siamo sempre pronti a nuove emergenze», chiarisce la coordinatrice. Alle sei e mezzo della sera suona una sirena. Non è l’allarme anti-aereo ma l’invito a cena. Davanti ai fornelli Aleksay, originario di Enerhodar, la città della centrale atomica. «Un razzo è caduto davanti a casa – racconta –. Ho tre figli. E con mia moglie non intendevamo stare sotto i russi». È diventato cuoco. «Non facciamo assistenzialismo – conclude Irina –. È bene che lavori chi ne ha la possibilità. E attraverso una ong garantiamo anche un contributo economico. La riconquista non è solo dei territori, ma anche della dignità».
Uno degli ingressi alla città di Zaporizhzhia - Gambassi