Non è purtroppo una novità: in Medio Oriente, negli ultimi decenni, non vi è stata crisi politica e di sicurezza che non abbia visto le minoranze cristiane quali vittime designate, dall’Iraq post-Saddam all’Egitto, dall’Algeria degli anni 90 alla Siria oggi sconvolta dalla guerra civile. Agli occhi dei settari, quelle comunità appaiono infatti come una presenza pericolosa: ora accusate di complottare contro i partiti dell’islam politico – e quindi di essere il nemico subdolo che mina la rivoluzione – ora additati come portatori dei deprecati valori “occidentali” e dell’idea di democrazia. Dei “diversi” da allontanare o da schiacciare, perché testimoniano la pluralità culturale e religiosa che è stata la caratteristica storica del Medio Oriente e che gli islamisti vogliono cancellare a favore di una tetra e fittizia uniformità dottrinale.
Ed è paradossale pensare che le minacce ai cristiani del Medio Oriente vengano proprio perché essi incarnano i valori della tolleranza e della democrazia, della pluralità religiosa e culturale, mentre in Europa avviene l’inverso: sempre più, la testimonianza dell’essere cristiani è infatti dipinta come una sfida di retroguardia alla democrazia e alla tolleranza. Sulla sponda sud del Mediterraneo vengono accusati di introdurre una democrazia che minaccia la religione dominante, lungo quella settentrionale sono indicati come coloro che – in nome della religione – sminuiscono la tolleranza e la ricchezza culturale occidentale.
La colpa è delle loro idee, che vengono attaccate come sempre più “balzane”: accompagnare al rispetto pieno di ogni apporto cultirale e religioso la salda consapevolezza delle radici giudaico–cristiane dell’Europa, la pretesa di festeggiare il Natale di Cristo a Natale e Pasqua di Risurrezione a Pasqua, di difendere pubblicamente e anche a livello di discussione politica princìpi che saldano dottrina della Chiesa ai grandi valori della tradizione classica e del diritto delle genti.
Tutto ciò avviene perché si è diffuso il pre-giudizio – sbagliato e autolesionista – che alla crescente pluralità etnica e culturale delle popolazioni europee si debba rispondere nascondendo le proprie radici e omettendo ogni riferimento alla cultura cristiana che permea le nostre società. È quel fenomeno che viene chiamato di “neutralizzazione” del religioso. Apparentemente opposto a quello che sembra un “eccesso di religione” dall’altra parte del Mediterraneo, e che invece a esso è strettamente collegato.
Perché tutto ciò fa parte di una difficile, faticosa presa di coscienza del mutamento delle nostre società e del problema conseguente di riconoscersi nella pluralità senza per questo divenire una società di “indistinti”. Non a caso, il cardinale Scola, nel suo ultimo libro (“Non dimentichiamoci di Dio. Libertà di fedi, di culture e politica”) sottolinea che lo spazio veramente pubblico, nelle società contemporanee, è solo quello che rende possibile «il raccontarsi» reciproco, scommettendo sulla libertà dei cittadini di esprimere la propria esperienza con una logica di mutuo riconoscimento. Una via obbligata sulle due sponde del Mediterraneo. Dove il posto dei cristiani non può diventare quello del privato silente o, di nuovo, del martirio.
“Riconoscere” significa accettarsi e non negare ad alcuno e ad alcun gruppo e comunità di fede che accetti le semplici ed essenziali regole dell’autentica democrazia piena cittadinanza, libertà di esistere e di dare significato e contributo alla vita delle società di cui è parte.