George Chachati aspetta taciturno davanti al portone di rue Patriarce Aja Aghaganian l’arrivo della commissione degli ingegneri guidata da Fathi Hoyek. Con moglie e quattro figli è uno degli sfollati tuttora ospitati nel convento dei salesiani. Sfollato o senza tetto, in questa Aleppo a un mese dal colpo di frusta mortale della notte del 6 febbraio?
«L’ottanta per cento non se ne va dal convento perché ha problemi psicologici, ma io faccio parte di quel 20 per cento che ha la casa inagibile», dice pacato dopo che la commissione ha assegnato il codice rosso al suo appartamento al quarto piano. In quella che si intuisce essere stata una palazzina signorile dell’antico quartiere di Suleimania, il sisma ha provocato una profonda crepa che trapassa il muro portante dell’ampia sala d’ingresso con lampadari a goccia e divani che diremmo vintage. «Dovremo affittare una casa in attesa della ristrutturazione». Il signor Chachati si è rivolto a una associazione caritativa legate alla Chiesa siriana che potrà sostenere per un anno l’affitto di un bilocale, in stabili di minor pregio, per una somma di circa 30 dollari al mese.
Un primo passo, si spera, verso la normalità dopo tre settimane di bivacchi generalizzati nei giardini pubblici, scuole, moschee e chiese. Nei pratoni di fronte allo stadio sono ancora piantate abusivamente alcune tende con le insegne dell’Unhcr, dei piccoli rimorchi lerci sono trasformati in “nursery mobile” e non sono pochi quelli che ancora trascorrono tutta la notte in automobile con l’intera famiglia. La distribuzione dei pacchi alimentari e di vestiti di seconda mano si trasforma in un poco dignitoso assalto alle inferriata dell’impianto sportivo da parte di una folla che a stento controlla l’aggressività. «Siamo diventati un popolo di mendicanti, da ricchi e fieri che eravamo. Il 90 % dei siriani sopravvive grazie alle Ong» ti dice un rappresentante di quel che resta della colta borghesia di Aleppo capace di commerciare seta e tappeti dall’India sino a Venezia.
Intanto il brulicare lento dei passanti sui marciapiedi e il traffico ancora rado nasconde una sopportazione di tragedie cui si stenta a dare il nome. Rahaf, 7 anni, non riesce a dire una parola nel piccolo appartamento della zia al secondo piano di una palazzina popolare ad Aleppo Est. Il fratellino di sei anni è rimasto sotto le macerie assieme ai due genitori, mentre i due fratelli maggiori – un ragazzo e una ragazza poco più che ventenni – hanno, uno la mandibola rotta, l’altra entrambi i piedi fratturati.
Il piccolo Omar, di otto mesi, è l’unico che sorride sincero mentre è preso in braccio da un volontario dei Maristi blu – associazione che fa parte della Fondazione marista per la solidarietà internazionale – che hanno portato un pasto caldo e un sacco di vestiti alla zia di Rafah. Ora, oltre ai cinque figli, ha sei nipoti cui badare: qualcuno ha messo gratuitamente a disposizione della famiglia un appartamento libero, ma ci vuol altro per ridare la parola a Rahaf. «Maledetto silenzio che chiudi la bocca e penetri nel cuore. Maledetto silenzio che sotterri i cuori e prosciughi anche le lacrime», è stata la meditazione del mattino di frère George Sabe alla comunità dei volontari maristi.
Sono 416 i palazzi distrutti, più di 3mila quelli da ristrutturare
Però nessuno sa quando i lavori potranno iniziare
«Le sanzioni internazionali non ci permettono nemmeno di rialzare un muro»
E sui volti silenziosi di Aleppo si possono leggere ferite invisibili più profonde delle crepe nei muri che paralizzano l’anima: «Perché dopo la guerra, dopo il colera, dopo il Covid, dopo la guerra economica, il terremoto? Perché ancora a noi?». Ansia, attacchi di panico e depressione sono all’ordine del giorno.
E nel silenzio di Aleppo cova un risentimento che potrebbe presto montare in collera: «Perché non sono arrivati uomini e mezzi specializzati dall’estero ad aiutarci a scavare fra le macerie? Perché non tolgono le sanzioni internazionali che ci opprimono da 12 anni?» è un “mantra” che veloce si ripete di bocca in bocca. Gli appelli di inizio settimana dell’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Geri Pedersen che ha chiesto di «rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono ai soccorsi di raggiungere i siriani in tutte le aree colpite» suonano come vuoti rituali troppo lontani dalla vita quotidiana di Aleppo.
E se si menziona Idlib, la provincia ribelle una sessantina di chilometri più a Ovest, è per far notare che lì i convogli dell’Onu sono stati fatti entrare mentre nessuno li ha visti ad Aleppo.
Nessuno ormai cerca più di salvare i sopravvissuti fra le macerie ma la ricostruzione per ora pare davvero impossibile: sono 120 le commissione di ingegneri che stanno esaminando tutte le case danneggiate. Se i più fortunati, con il benestare dei tecnici possono rientrare, riuscendo magari a beneficiare grazie alle Ong presenti di fondi per piccole riparazioni, per chi deve compiere una ristrutturazione completa resta solo una lista di attesa presso il governatorato o la municipalità.
Ad oggi sono stati esaminati 16mila palazzi: 416 sono andati completamente distrutti e 3.200 dovranno essere pesantemente ristrutturati. I tecnici stimano che alla fine ad Aleppo i senza tetto saranno quasi un milione e mezzo, vale a dire il 40% di una popolazione di poco più di 3 milioni di abitanti. Più prudente l’Onu che stima siano 50mila le famiglie sfollate ad Aleppo, Hama, Homs e Latakia. Di certo una bomba ad orologeria in un Paese che prima del terremoto aveva più di 6 milioni di sfollati interni.
«I cristiani potranno contare sulla solidarietà internazionale della Chiesa, ma il governo in bancarotta non ha i mezzi per ricostruire. I musulmani non hanno nessuno che li aiuti» spiegano gli ingegneri. E soprattutto finora nessuno ha ricostruito sulle macerie del dopoguerra: «Le sanzioni lo impediscono: si può riparare il vetro di una finestra rotta, ma non rialzare un muro crollato: usare calce e mattoni è considerato ricostruzione sinora vietata dal dopoguerra» prosegue l’ingegnere Fathi Hoyek, responsabile per il governatorato di Aleppo anche delle riparazioni dei danni di guerra.
8.476
le vittime del terremoto in Siria secondo l’Osservatorio dei diritti umani
53.565
i morti in totale del sisma che il 6 febbraio ha colpito il nord della Siria e la Turchia
Una bomba sociale ad orologeria che è un pressante appello a tutta la comunità internazionale a cui la Chiesa italiana vuole subito rispondere. «Qui ad Aleppo percepiamo devastazione e dolore a causa della guerra, della povertà conseguenza anche delle sanzioni, delle malattie e adesso del terremoto» osserva il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Baturi sul piazzale d’ingresso dell’"ospedale dei francesi". «Ci sono, però, anche alcune luci che confortano: la volontà di questo popolo fiero, di continuare a lottare per una vita più degna, e la testimonianza di fede e di carità di tanti cristiani, di tanti religiosi». Una visita in Siria dettata anzitutto da «fraternità umana e cristiana» prosegue l’arcivescovo di Cagliari. Una visita «a nome di tutta la Chiesa italiana per dimostrare la nostra vicinanza, la nostra volontà di aiuto ma anche per imparare come si possa restare, in una situazione così difficile, forti nella fede, forti nella fiducia dell’uomo. Questo è un popolo che merita la più ampia solidarietà e generosità».
La colletta nazionale promossa in tutte le chiese italiane domenica 26 marzo, nel cuore della Quaresima, sarà l’occasione per esprimere questa vicinanza alle popolazioni terremotate di Siria e Turchia. Una aiuto nella prima emergenza «molto grave anche a Nord, nelle aree un cui non si può accedere facilmente». E nel medio periodo anche progetti educativi e di sostegno alla sanità.
Solo così non sarà uccisa anche la speranza dei giovani di Aleppo. Te lo ripetono tutti: «Adesso che la terra ha tremato il 99 per cento ha un solo desiderio: andare a studiare e a vivere all’estero». Per restare serve invece una terra da amare, un tetto da riparare, un lavoro per cui sperare. «Tierra, tecio, trabajo», «Arth, sataf, saqaf» e “poeti sociali” capaci di ricostruire.
Oltre 5 miliardi la prima stima dei danni in terra siriana
Il disastro del terremoto che ha colpito la regione di confine turco-siriana, provocando oltre 53mila morti, ha causato danni alle proprietà (pubbliche e private) per 5,1 miliardi di dollari nel solo terrotorio della Siria. Questo quanto emerge da una stima della Banca mondiale pubblicata ieri dall’organismo di Bretton Woods.
Una cifra considerata preliminare e al ribasso dagli stessi tecnici che l’anno stimata: i danni sono comunque calcolati tra i 2,7 miliardi e i 7,9 miliardi, mentre i costi della ricostruzione potrebbero essere facilmente il doppio. I danni agli edifici residenziali rappresentano quasi la metà del totale, un terzo è riconducibile a edifici non residenziali e poco meno di un quinto dei danni che interessa infrastrutture come strade o impianti elettrici e idrici. In un rapporto separato pubblicato all'inizio di questa settimana, la Banca mondiale ha stimato che il danno alla sola proprietà in Turchia è stato di almeno 34,2 miliardi di dollari: quasi sei volte superiore al danno della confinante Siria dove, tranne Aleppo, sono state colpite città relativamente piccole.