Biden e Xi nel 2011 - Ansa
A circa 24 ore dal gong che segnerà, oggi, la chiusura ufficiale delle trattative in corso alla 26esima Conferenza Onu sul clima, alcuni Paesi sembrano aver già abbandonato il palcoscenico di Glasgow. Fa molto effetto l’annuncio a sorpresa dell’altra sera del patto tra Washington e Pechino, che resta però vuoto di contenuti. Molti osservatori ancora notano, per esempio, la mancanza di gioco esterno dell’Unione Europea che, spiegano, «non è tuttavia una resa».
Ogni Paese rappresentato a Cop26, Bruxelles compresa, ha giocato per due settimane la propria parte ma la partita finale sul futuro del pianeta sembra adesso essersi spostata su un solo tavolo negoziale: quello tra Stati Uniti e Cina. Il segretario dell’Onu, António Guterres, polverizza con una battuta l’ottimismo con cui, mercoledì sera, molti hanno accolto il patto di collaborazione tra Washington e Pechino: l’obiettivo della Cop26 – ha detto invece – di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi è «in fin di vita». Nella fase finale di negoziazioni lunghe e complesse come quelle tessute nella grigia cornice scozzese è difficile distinguere la natura tattica o puramente descrittiva delle dichiarazioni rilasciate ai margini dei colloqui. L’uscita di Guterres, se non studiata a tavolino per alimentare tra le parti la tensione legata allo scadere del tempo, non è rassicurante. Gli agognati «accordi di Glasgow» devono andare oltre quelli di Parigi del 2015. Per questo, il segretario Onu lo ha detto con chiarezza, sul clima «non possiamo accontentarci del minimo comun denominatore». Ovvero di un’intesa che recepisca, inanellandoli, i proclami spesso molto vaghi diffusi a centinaia in queste due settimane di Cop26. Lo ha ricordato anche il presidente britannico del summit, Alok Sharma: «C’è ancora molto lavoro da fare – ha ammesso – non ci siamo ancora». Quello che manca, ha precisato, «è il cambio di marcia». La svolta storica. Quella che, forse, solo Cina e Stati Uniti, i più grandi produttori di CO2 al mondo, possono consegnare all’umanità. Parigi docet.
La «comunione d’intenti» annunciata a sorpresa mercoledì da John Kerry e Xie Zhenhua, referenti per la politica sul clima, rispettivamente, per la Casa Bianca e per il Partito comunista cinese è di per sé già molto significativa, seppure vaga, limitata a un generico impegno comune sulla deforestazione illegale, graduale riduzione dell’uso del carbone e controllo delle emissioni di metano. Kerry lo aveva del resto già chiarito più volte nell’ambito dei discorsi a Glasgow: competizione commerciale e militare a parte, sul clima, le due superpotenze «non possono che cooperare». A ruota è arrivato l’atteso annuncio della data del «vertice virtuale» (il fatto che si svolta in teleconferenza non è l’unica accezione del termine “virtuale”) tra il presidente statunitense Joe Biden e quello cinese Xi Jinping, in programma lunedì sera. Da più parti è interpretato come un tentativo di riavvicinamento che inietta fiducia anche sull’esito delle trattative sul riscaldamento globale.
I più obiettivi fanno però notare che Washington e Pechino «ballano ancora una volta da soli», ignorando quella multilateralità invocata anche all’apertura dei lavori. E il mondo li sta a guardare. Fuori dal Centro Congressi di Glasgow, ieri, gli ambientalisti sono tornati a protestare contro il «bla, bla, bla» dei grandi della terra. Dentro, invece, gli impiegati Cop26 già pianificano lo smantellamento di stand e postazioni. Non è detto tuttavia che il documento di fine Conferenza arrivi in serata, come previsto dalla tabella di marcia ufficiale. I veterani del summit ventilano la possibilità che le negoziazioni possano proseguire anche durante il weekend. Molti lo interpreterebbero come un buon segno perché significherebbe che c’è la buona volontà di arrivare a un’intesa che possa davvero lasciare il segno. O quantomento non marcare un altro fallimento. Superando persino le resistenze di nazioni come Australia, Russia e Arabia Saudita che, a detta dei delegati, hanno in ogni modo cercato di sabotare l’esito del summit sin dalle prime battute.
Tra i più delicati da sciogliere non c’è solo c’è quello della tempistica relativa al raggiungimento della neutralità carbonica ma anche quello relativo ai meccanismi di distribuzione delle risorse promessi dai Paesi ricchi a quelli poveri per adattare le economie locali al cambiamento climatico. Alta è l’attesa anche sull’annoso capitolo dedicato alle norme che devono regolare il mercato internazionale delle emissioni di carbonio, quel sistema di incentivi previsti dall’articolo 6 degli Accordi di Parigi. Tecnicismi che fanno la differenza nella sfida globale contro il cambiamento climatico e su cui verrà testata la portata del successo (o del flop) dell’edizione scozzese della Cop.