Manifestazioni contro il governo a Port-au-Prince - Reuters
«A cosa serve un presidente o un governo incapace di fermare il treno della morte che semina quotidianamente il lutto tra la popolazione?». E' un duro atto d'accusa, la lettera aperta scritta dalla Conferenza dei religiosi e delle religiose haitiani al presidente Jovenal Moïse. L'opposizione considera il mandato di quest'ultimo scaduto lo scorso 7 febbraio. Ma il leader insiste di avere ancora un altro anno di mandato, dato il ritardo nell'entrata in carica. Il braccio di ferro è, però, solo l'ultimo atto di una crisi che si protrae fin dall'estate 2018 quando, un mega-scandalo di mazzette, ha coinvolto gran parte della classe politica. Incluso l'attuale presidente e le tre precedenti amministrazioni. La rabbia della nazione - i cui tre quarti sopravvivono con meno di due dollari al giorno - è esplosa in una serie di violente manifestazioni che, da allora, sono proseguite a fasi alterne. Nell'autunno 2019, Haiti è stata in pratica paralizzata per mesi dai Peyi lock, il blocco di ogni attività decisa dai dimostranti. Da un mese, la fiammata della rivolta si è riaccesa. Nel frattempo, l'attività istituzionale è da tempo congelata: il Parlamento, scaduto da un anno, è fermo e Moïse va avanti per decreto. Ma sul territorio l'assenza di governo s'è fatta drammatica. «Il Paese sta morendo, la popolazione è sotto giogo, l'insicurezza dilaga, i più poveri non ce la fanno più, la popolazione è allo sbando e al limite della disperazione, il Paese non è più governato. Siamo testimoni e vittime di troppi crimini, troppe ingiustizie e disuguaglianze», hanno scritto i religiosi e le religiose. A preoccupare, soprattutto, il dilagare delle gang: mafie dei poveri, formate da giovani e giovanissimi disperati, che si finanziano con piccoli furti, estorsioni e, soprattutto, sequestri, esponenzialmente aumentati negli ultimi mesi. Da gennaio, il Human Rights Analysis and Research Center (Cardh) ha registrato una media di due rapimenti al giorno.