Il tesoretto custodito al numero 12 di Neglinnaja uliza da Elvira Nabiullina, advisor di fiducia di Vladimir Putin e governatrice della Banca Centrale della Federazione Russa ora servirebbe davvero. Anche perché la sua entità fa impressione: 569,8 miliardi di dollari dichiarati il 24 aprile scorso e conservati nelle sontuose mura del bel palazzo in stile rococò zarista a due passi dal teatro Bolšoj, a garanzia dei “rainy days”, ovvero, come si dice in gergo, i giorni delle vacche magre. Ad accumulare una così sontuosa provvista di valuta pregiata e oro è stato il favorevole andamento dei prezzi del greggio, principale risorsa della Federazione: una svolta autarchica iniziata con l’avvio delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, che ha fatto orgogliosamente dire a Putin che la Russia potrebbe resistere senza fatica altri sei anni adottando una vera e propria economia di guerra; perfino ora che quel vantaggio competitivo si è drasticamente ridotto con la caduta di gas e petrolio sul mercato internazionale.
Ma a 75 anni dalla vittoriosa conclusione della Grande guerra patriottica il nerbo della società russa non è più quello dell’assedio di Leningrado. Perché alle sanzioni e alla fallimentare guerra dell’energia lanciata da Mosca e dall’Opec si è aggiunta la variabile coronavirus. Un intruso inaspettato e imponderabile che ha superato i 155mila casi e il record giornaliero di 10mila nuovi contagi con un numero ufficiale di decessi che è giunto a quota 1.451. Un dato al quale nessuno crede fino in fondo, nonostante le rassicurazioni del governo. Né aiutano i casi – ormai tre a distanza di poco tempo – di medici e operatori sanitari misteriosamente caduti dalle finestre degli ospedali in cui lavoravano e solo dopo aver criticato l’efficienza della macchina statale. Poca cosa, in un Paese in cui il dissenso si deve accontentare dei social network e le manifestazioni di piazza scoraggiate e quasi sempre represse. La stessa samoizolyatsiya, l’autoisolamento adottato in Russia al posto del lockdown in auge in quasi tutto il resto del mondo, si è rivelata un boomerang: la mancata quarantena ha aumentato i casi di contagio senza giovare ai consumi e all’economia. E oggi che più che mai le riserve della Banca centrale servirebbero per contrastare la crisi economica del Paese, i cordoni della borsa si sono stretti ancora di più nei confronti dell’iniziativa privata (i negozianti, i ristoratori, le librerie, gli artigiani, le piccole aziende indipendenti, una forza lavoro di oltre 18 milioni di persone), riservando la maggior parte degli aiuti alle grandi imprese, controllate dallo Stato, come Gazprom e Rosneft. Al più celebre dei suoi contestatori, il blogger Alekseij Navalniy leader di Rossiya Budušhchego (La Russia del futuro), che chiedeva al governo di intervenire con 2mila miliardi di rubli (almeno 27 miliardi di dollari) per soccorrere la piccola e media impresa, Putin ha risposto con la sprezzante accusa di «populismo».
E c’è anche una ragione storica e culturale per questa radicata diffidenza nei confronti dell’iniziativa privata: dai tempi remoti dell’Unione Sovietica il proprietario di beni e il commerciante è visto come un mochennik, un truffatore e un imbroglione, come il trafficante di jeans made in usa negli anni Settanta. Ma oggi penalizzare la middle class russa – Putin ha offerto solo 160 dollari di sovvenzioni valide per due mesi per ogni lavoratore, pari a circa un terzo del salario medio dopo aver promesso sollennemente in tv di garantire il salario pieno – è come dare un colpo al cuore della popolarità del presidente, già abbondantemente scesa sotto la soglia stellare del 66% guadagnato all’apice della sua fama personale. Anche l’operazione di cosmesi costituzionale che dovrebbe garantirgli la permanenza al potere e a vita è stata congelata. La stessa Banca Centrale è pronta a riconoscere che «è probabile che l’economia della Federazione Russa andrà incontro ad una recessione nel corso del 2020. La situazione – dice la Nabiullina – è in rapida evoluzione, ma allo stato attuale abbiamo dovuto rivedere al ribasso le nostre stime relative alla crescita dell’economia e del Pil». Il totale degli investimenti diretti esteri nelle compagnie della Federazione Russa si è attestato a 200 milioni di dollari nei primi tre mesi dell’anno, registrando un calo superiore al 98 per cento rispetto allo stesso periodo del 2019. Crisi profonda dello Stato sociale e grandi ritardi nella modernizzazione del Paese sono i mali endemici della Russia fin dall’epoca di Breznev. Non fosse per la complicanza del petrolio e le sanzioni, l’allarme di oggi sembrerebbe una riedizione di quegli anni. «Il coronavirus – profetizzano i maligni (e fra di essi i silenziosi avversari di Putin, che sono ormai numerosi) – farà il resto ». Dimenticandosi le 7 vite dello zar. Che finora è sopravvissuto a ben altri scossoni.