Una ricercatrice a Oxford - Reuters
Elevata è l’attesa per lo sviluppo, la sperimentazione clinica e la produzione di vaccini contro il Covid-19 (sebbene non vi sia certezza che sarà davvero la panacea) in un mondo segnato dalla pandemia che ha già fatto oltre 810mila vittime e stravolto la vita quotidiana di miliardi di persone. Ma è aperto un dibattito etico, rilanciato ieri dall’intervento di alcuni vescovi australiani, sulle procedure di ottenimento di alcuni candidati vaccini. Come ha rivelato la rivista Science nel giugno scorso, almeno cinque di essi – tra cui quello studiato a Oxford con l’azienda AstraZeneca, prenotato in grande quantità anche dall’Italia – utilizzano, per il loro sviluppo, due linee di cellule fetali umane ottenute da aborti volontari in donne gravide: la HEK-293 (linea cellulare renale fetale isolata da un aborto intorno al 1972) e la PER.C6 (linea retinica ottenuta da un feto di 18 settimane abortito nel 1985). Entrambe le linee cellulari sono state elaborate nel laboratorio del dottor Alex van der Eb (Università di Leiden, Olanda) e sono utilizzate nei laboratori di ricerca e delle industrie biotecnologiche.
In quattro dei candidati vaccini le cellule HEK-293 o PER.C6 derivate da quelle originalmente prelevate dai feti abortiti sono utilizzate come “mini-fattorie” per produrre grandi quantità di adenovirus in cui è inibita la replicazione e che servono per introdurre alcuni geni del coronavirus SARS-Cov-2 nel vaccinato così da indurre la produzione di proteine virali e stimolare la risposta immunitaria. Nel quinto potenziale vaccino, le cellule HEK-293 servono per produrre in laboratorio la proteina spike del SARS-Cov-2 che sarà iniettata nella cute con cerotto a microaghi (skin patch) per innescare la reazione immunitaria. Non è il primo caso di vaccini che impiegano cellule fetali da aborti elettivi, essendo queste ultime utilizzate già dagli anni 1960. Vaccini che sono impiegati per immunizzare contro la rosolia, la varicella, l’epatite A, la poliomielite e l’herpes zoster. Linee di cellule fetali umane vengono anche usate per produrre alcuni farmaci contro l’emofilia, l’artrite reumatoide e la fibrosi cistica.
Per evidenziare le ragioni di un dubbio etico sulla liceità morale della sperimentazione, della produzione e dell’uso da parte di medici e pazienti di princìpi attivi biotecnologici ottenuti attraverso l’utilizzo di cellule prodotte a partire da quelle a suo tempo prelevate da feti umani (non si tratta delle stesse cellule del feto abortito, ma di cellule della stessa linea cellulare – ovvero con le identiche caratteristiche biologiche – derivate per successive divisioni mitotiche da quelle originali) occorre partire dal riconoscimento da parte della coscienza, illuminata dalla legge morale, che «fra tutti i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile» (san Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 58). Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all’infanticidio, un «delitto abominevole» (Gaudium et spes, n. 51).
In continuità con tutto il magistero cattolico precedente, papa Francesco ha ricordato con forza più volte che «l’aborto non è un male minore. È un crimine. È fare fuori uno per salvare un altro […] È un male in sé stesso, […] è un male umano. Ed evidentemente, siccome è un male umano – come ogni uccisione – è condannato» anche dalla Chiesa (17 febbraio 2016). Si comprende, dunque, perché da parte di tre vescovi australiani (un cattolico, un greco-ortodosso e un anglicano) e di altri rappresentanti cristiani e singoli fedeli è stata sollevata una accorata richiesta ai ricercatori, alle industrie biotecnologiche e ai governi di alcuni Stati affinché si orienti lo studio e la produzione dei vaccini anti-Covid-19 verso preparati che non utilizzino linee cellulari fetali. Questa richiesta è conforme a quanto espresso nel documento del 2005 della Pontificia Accademia per la Vita, ripreso da una nota della stessa Accademia del 2017 (insieme con Ufficio per la Pastorale della Salute della Cei), e trova ampio consenso tra gli studiosi di teologia morale.
È evidente l’obbligo morale di tutti i soggetti coinvolti nella ricerca, nella produzione, nella commercializzazione e nella somministrazione di un vaccino (ciascuno dei quali ha responsabilità differenti verso l’uso di cellule fetali da aborti elettivi in ordine al vaccino stesso) di dissociarsi formalmente e pubblicamente dall’atto di aborto che è all’origine remota della produzione di linee cellulari fetali. D’altra parte, si evidenzia la liceità dell’uso pro tempore di questi vaccini – nella misura in cui essi rappresentino una condizione necessaria e proporzionata per tutelare la salute e salvare la vita dei cittadini – in attesa della disponibilità di altri mezzi profilattici vaccinali o non vaccinali efficaci. La liceità di tale uso, in ogni caso, va interpretata come una cooperazione materiale passiva, moralmente giustificata come extrema ratio dal dovere di provvedere al bene personale e comune, e mai come una approvazione morale della loro produzione.