Proteste alla Cop26 - Ansa
Silenzio teso, rumore di porte che si aprono e si chiudono, conciliaboli nei corridoi. Il clima – per impiegare il termine più in voga negli ultimi giorni – allo Scottish event campus è cambiato rispetto alla scorsa settimana. Non c’è più tempo per gli annunci ad effetto e i discorsi suggestivi. A settantadue ore dal presunto finale – appare sempre più probabile lo slittamento almeno a sabato –, l’obiettivo è stringere.
Ieri è stato il giorno più lungo a Glasgow: quello dell’ultimazione della bozza preliminare. Il testo sarebbe dovuto essere diffuso lunedì. Alla fine, però, il presidente della 26esima Conferenza Onu sul cambiamento climatico (Cop26), Alok Sharma, ne ha rinviato la pubblicazione alla notte tra ieri e oggi nell’intento di sciogliere i nodi più controversi.
Finanza in primis, su cui la spaccatura tra Paesi del Nord del mondo e fronte Sud è netta. L’impresa, però, si sta rivelando come «scalare una montagna», ha ammesso lo stesso Sharma.
A rendere ancor più cupa l’atmosfera ha contribuito il rapporto del prestigioso Climate action tracker (Cat). Gli impegni presi e rilanciati con grande enfasi mediatica dai leader internazionali per il prossimo decennio sono ben al di sotto degli standard richiesti dall’Accordo di Parigi. Se rispettati, non riuscirebbero a contenere la temperatura globale sotto la soglia dell’1,5 gradi.
Quest’ultima, al contrario, crescerebbe alla fine del secolo di un allarmante 2,4 gradi. Un passo avanti rispetto ai 2,7 previsti dal Programma ambientale dell’Onu alla vigilia del summit di Glasgow. Sempre troppi, comunque, per il benessere della terra e dei suoi abitanti, come hanno già ampiamente dimostrato gli scienziati dell’International panel on climate change (Ipcc) nell’ultimo rapporto. E lo ha appena ribadito il Met office britannico, secondo cui oltre un miliardo di donne e uomini sarà colpito da ondate di calore e allagamenti fatali. L’unico modo per evitarlo è un taglio drastico delle emissioni. Ora. Cioè, nel prossimo decennio, spiegano gli esperti del Cat. Sono oltre 140 i Paesi che, complice la ribalta del summit, hanno garantito l’azzeramento delle emissioni nette nel 2050, il blocco occidentale, o 2060, come Russia e Cina, o nel 2070, l’India. Pochi, però, hanno spiegato come intendano farlo.
Mancano, cioè, obiettivi convincenti a breve termine. Senza, i "proclami a CO2 zero" rischiano di restare solo buone intenzioni. Per questo il Cat sostiene che «nessuno fa abbastanza». Per sottolinearlo, ha lasciato vuoto il podio del Climate change performance index, elaborato con Germanwatch, New climate institute e Legambiente per l’Italia e relativo allo studio delle politiche dei 63 Paesi responsabili del 92 per cento delle emissioni. Primo dei virtuosi, – ma comunque in quarta posizione – la Danimarca, che ha scalzato la Svezia. Gli Usa sono al 55esimo posto, quasi venti posizioni sotto la Cina, al 37esimo. L’Italia è caduta di tre posizioni ed è finita al 30esimo posto, a causa soprattutto del lento sviluppo delle rinnovabili. «È necessario cambiare rotta», afferma Legambiente che chiede un taglio alla CO2 del 65 per cento e non del 51 come previsto dal Pnr entro il 2030.
Gli scienziati del Cat sono convinti che sia ancora possibile contenere il riscaldamento globale. Con lo sforzo di tutti. Ecco perché la Cop26 non può fallire. Lo ripete l’Onu. E le fa eco la Gran Bretagna che sul successo della Conferenza sta giocando la sua immagine dopo Brexit. Per questo, il premier Boris Johnson, è stato convocato d’urgenza oggi. Incontrerà i negoziatori. E chiederà loro uno sforzo. Prima che sia troppo tardi. E non solo per la Cop26.