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Il Tribunale distrettuale di Kyoto, assediato da centinaia di persone che volevano assistere alla lettura della sentenza, ha emesso il verdetto di condanna a morte per l’uomo che il 18 luglio 2019 nella città di Uji appiccò un rogo in cui morirono 36 persone. Il più grave omicidio di massa della storia recente ha colpito profondamente i giapponesi, ancor più perché l’edificio distrutto era sede del Kyoto Animation (noto ai più come KyoAni) studio di produzione di corto e lungometraggi di animazione noti e apprezzati nel Paese e fuori. La sentenza ha descritto l’accesso di Aoba negli studi quella mattina portando con sé della benzina che utilizzò per innescare l’incendio della palazzina in cui si trovavano 70 dipendenti.
Per il 45enne Aoba, gravemente ustionato nel rogo, l’accusa aveva chiesto da subito la pena capitale per la premeditazione e la determinazione dietro l’atto criminale, mentre la difesa aveva insistito sull’incapacità mentale dell’uomo, proponendo l’assoluzione o pene più lievi per i disturbi della personalità di cui soffriva.
A giustificazione del suo crimine Aoba, reo confesso, ha sostenuto di avere agito perché lo studio avrebbe utilizzato un suo racconto come sceneggiatura di un produzione, ma le sue affermazioni sono state viste come secondarie rispetto alle responsabilità definite «pesantissime» dal presidente della Corte.
Al di là della vicenda e delle considerazioni che hanno portato i giudici a un giudizio così definitivo, la vicenda riaccende i riflettori sul sistema delle pene in Giappone e di come, in particolare, quella capitale venga gestita, più che in funzione della punizione del giudicato colpevole, come strumento di deterrenza per reati efferati.
Il processo è iniziato oltre quattro anni dopo l’evento, un ritardo giustificato dalle necessità di trattamento e di riabilitazione fisica di Aoba. Tuttavia, se è un fatto che Giappone e Stati Uniti sono le uniche democrazie del G7 a prevedere la pena di morte nel loro ordinamento, è pur vero che se negli Usa l’esecuzione (in alcuni casi anche la sua sospensione) si trasforma in un evento mediatico, nel “caso” giapponese il condannato di fatto scompare anche per la famiglia fino a impiccagione avvenuta. Questo spiega la presenza di 106 detenuti nel braccio della morte, mentre lo scorso anno, a fronte di tre nuove condanne, non ci sono state esecuzioni.