Silvia de Munari, Roviro López Rivera e Levis Florez Ramos in questi giorni a Roma
«Vi ammazzeremo tutti». Le minacce si susseguono una dopo l’altra, incessanti. Arrivano via telefono o attraverso qualche vicino. Una si sussegue con inesorabile frequenza: «Faremo fuori Germán Graciano Posso e Gilardo Tuberquia prima della fine dell’anno». «Certo che abbiamo paura. Siamo circondati. Io stesso non posso più spostarmi senza essere accompagnato», racconta Roviro López Rivera, consigliere della Comunità di pace di San José de Apartadó. Così si chiama l’oasi di resistenza di nonviolenta creata il 23 marzo 1997 da trecento famiglie di contadini del municipio nel cuore dell’Antioquia, con il sostegno dell’arcidiocesi, della Commissione interecclesiale Giustizia e pace e dal Centro per l’educazione popolare dei gesuiti (Cinep) e il cruciale accompagnamento di Operazione Colomba della Papa Giovanni. Da ventun anni, la Comunità rifiuta di entrare nella “dinamica del conflitto”, che per oltre mezzo secolo ha imprigionato la Colombia. Ora, dal 24 novembre 2016, la guerra tra il governo e la principale formazione guerrigliera, le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), è finita. Per la Comunità, però, la pace non è ancora cominciata. «Abbiamo accolto con gioia l’annuncio della firma dell’accordo dell’Avana. Il ritiro dei guerriglieri, però, dalla zona ha creato, tuttavia, un vuoto. Presto occupato dai paramililitari», racconta Roviro, in Europa in questi giorni insieme a Levis Florez Ramos, per far conoscere alla comunità internazionale il difficile dopoguerra colombiano.
L'ombra dei paramilitari
In teoria, i paramilitari delle Autodefensas unidas de Colombia (Auc) – la federazione delle bande d’ultra-destra create da boss del narcotraffico e latifondisti in funzione anti-guerriglia – si sono smobilitati tra il 2003 e il 2006. Molti dei loro quadri intermedi sono rimasti, però, in attività dando vita a una galassia di narco-bande. Come le Autodefensas gaitanistas de Colombia. Forti dei vecchi legami con l’esercito, queste ultime hanno “conquistato” la valle dell’Urabá dove si trova San José de Apartadó. Con il terrore. «Ci sono almeno 7mila paramilitari: li riconosci subito, hanno una specie di divisa, con il logo delle Autodefensas gaitanistas. Obbligano i contadini a lavorare per loro, piantando la coca. Fino al 2005 non ne esisteva una sola pianta e ora siamo invasi. In casa di ogni agricoltore hanno piazzato un loro informatore. Controllano tutto. E l’esercito non fa niente per fermarli», denuncia Roviro. Lui stesso è stato più volte minacciato e il 27 dicembre scorso è scampato per un soffio a un tentativo di ucciderlo. In quell’occasione, la presenza nella Comunità di alcune volontarie di Operazione Colomba si è rivelata fondamentale. Più che per la sua vita, Roviro, però, è preoccupato per la Comunità e per i contadini della zona. «Chi non si adegua alle loro regole deve andare via. Negli ultimi tempi, cinque famiglie sono fuggite. Perfino due persone della Comunità hanno lasciato la regione” per trasformarsi in “desplazados”, sfollati interni, come altri sette milioni di colombiani. Il rischio è reale: negli ultimi due anni, sono stati assassinati quasi 350 attivisti. Strangolata dai paramilitari, la Comunità di pace non si arrende. Quando gli domandano fino a quando andranno avanti, Roviro risponde con il “motto” della sua gente: «Fino a quando il dolore si trasformerà in speranza, sempre ci sarà comunità».